La crisi dei rifugiati, il senso delle proporzioni e quei numeri che preferiamo non vedere

La crisi dei rifugiati, il senso delle proporzioni e quei numeri che preferiamo non vedere

Juncker durante lo Stato dell’Unione: in Europa quasi tutti, un tempo, siamo dovuti scappare

[9 settembre 2015]

Conflitto siria

«La crisi dei rifugiati oggi è, e deve essere, la priorità per l’Ue». Il discorso sullo Stato dell’Unione 2015, pronunciato dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker di fronte all’aula del Parlamento europeo, ha il merito di riportare il senso delle proporzioni in un dibattito pubblico allucinato dalla paura e dalle destre xenofobe che la cavalcano lungo tutto il Vecchio continente.

Dall’inizio dell’anno sono circa 500mila le persone che si sono fatte strada verso l’Europa, nella stragrande maggioranza dei casi fuggendo – sottolinea Juncker – dalla guerra in Siria, dal terrore dell’Isis in Libia (un’ex colonia italiana), o dalla dittatura in Eritrea (altro dominio coloniale italiano). Grecia, Ungheria e Italia, gli Stati membri posti lungo i confini europei che per primi incontrano le rotte dei rifugiati, sono «i più colpiti» con rispettivamente 213mila, 145mila e 115mila arrivi (pressappoco quanti gli italiani che nel 2014 sono emigrati per cercare lavoro altrove).

«Numeri impressionanti. Per alcuni spaventosi – premette Juncker – Ma questo non è il momento di lasciarci prendere dalla paura. È il momento di agire in modo coraggioso, determinato e concertato da parte dell’Unione europea, delle sue istituzioni e di tutti i suoi Stati membri. È prima di tutto una questione di umanità, e di rispetto della dignità umana. E per l’Europa è anche una questione di equità storica. Noi europei dovremmo ricordare bene che l’Europa è un continente in cui quasi tutti, un tempo, sono stati rifugiati. La nostra storia comune è segnata da milioni di europei in fuga dalle persecuzioni religiose o politiche, dalla guerra, dalla dittatura, dall’oppressione».

Juncker cita gli ebri in fuga dalla Germania nazista, i repubblicani spagnoli in fuga verso la Francia dopo la sconfitta patita durante la guerra civile, i rivoluzionari d’Ungheria (oggi teatro di gesti agghiaccianti nei confronti dei rifugiati) in fuga dal regime comunista. Senza dimenticare – aggiungiamo noi – gli italiani che a milioni sono fuggiti dalla povertà e dal proprio Paese negli scorsi decenni.

Nonostante l’Europa sia oggi per molti europei terra di austerità e crisi economica, dall’esterno è vista come una roccaforte di ricchezza e diritti umani, e non senza ragioni. «Qualcosa di cui essere orgogliosi, e non qualcosa da temere. L’Europa di oggi è di gran lunga il continente più ricco e stabile del mondo. Abbiamo i mezzi per aiutare chi fugge dalla guerra, dal terrore e dall’oppressione. So che molti affermeranno che questo è molto bello, ma che l’Europa non può accogliere tutti. È vero che l’Europa non può farsi carico di tutta la miseria del mondo, ma cerchiamo di essere onesti e di mettere le cose in prospettiva. Vi è certamente un numero importante e senza precedenti di rifugiati che arrivano in Europa in questo momento. Tuttavia, essi rappresentano ancora solo lo 0,11% della popolazione totale dell’Ue. In Libano, i profughi rappresentano il 25% della popolazione. E questo in un Paese dove le persone hanno solo un quinto della ricchezza di cui godiamo in seno all’Ue».

Aprire gli occhi di fronte alla crisi dei rifugiati può essere dunque un’occasione per noi stessi, per riscoprire le radici stesse del nostro essere europei. Dopo una gestione ideologica e a dir poco imbarazzante della crisi economica, ancora in corso, questa può essere l’occasione per la Commissione Ue (e per la Germania, che in tal senso sta guidando il cambiamento) di ritrovare la strada di una leadership morale. La retorica d’altronde è un prodotte made in Europe, e quella di Juncker oggi ha funzionato perfettamente. È sulla pratica che, purtroppo, rimane ancora molto da migliorare.

L’Ue ha deciso di aiutare Italia, Grecia e Ungheria ricollocando negli altri Stati membri (secondo una ripartizione riportata nella tabella di fianco) 120mila rifugiati, ai quali si aggiungono i 40mila decisi a inizio estate. Una quota che rimane irrisoria, con un Paese – la Germania – che da solo si aspetta ragionevolmente di accogliere altri 800mila siriani, mentre il suo ministro delle Finanze si preoccupa di sottolineare ancora una volta come l’accoglienza debba essere finanziata senza emettere nuovo debito. Inoltre, per i Paesi che non aderiranno a questo schema europeo sono sì previste sanzioni, ma nella misura dello 0,002% (!) del proprio Pil.

Con lungimiranza, l’Ue ha inoltre deciso di istituire un fondo fiduciario per «la stabilità e di lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare in Africa», indirizzato ad aiutare le regioni del Sahel e del lago Ciad, del Corno d’Africa e infine della sponda sud del Mediterraneo. Per un’area tanto immensa quanto in difficoltà si stanziano però solo 1,8 miliardi di euro.

Tra dieci anni, quando la guerra in Siria e la relativa crisi dei rifugiati sperabilmente sarà finita, l’Africa sub-sahariana ospiterà 1,2 miliardi di persone. Quante saranno tanto soddisfatte delle proprie condizioni di vita da non provare a emigrare altrove, magari in Europa? È una domanda cui l’Unione, e dunque tutti noi, dovremmo avere ben presente. La crisi dei rifugiati ci offre l’opportunità di guardare non solo all’accoglienza, ma anche alla ridefinizione di un modello di sviluppo necessariamente più equo e più sostenibile. Un cambiamento epocale, che oggi possiamo però ancora provare a governare. Se non lo faremo, volenti o nolenti la storia lo farà per noi. E potrebbe non piacerci.

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