Bokassa non paga – Il Bacio di Giuda

Bokassa non paga

IL BACIO DI GIUDA

Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una gran folla con spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro questo segnale dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!». E subito si avvicinò a Gesù e disse: «Salve, Rabbì!». E lo baciò. E Gesù gli disse: «Amico, per questo sei qui!». Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a Gesù, e lo arrestarono…

…Fa un freddo boiardo in questa valle scellerata. Copro il mio corpo di un eskimo che puzza di kebab e d’Equatore. I fumi si spandono nella cucina e sanno di tè nordafricano e uova fritte. Davanti al focolare un capannello di giovani uomini si scalda ma la fiamma è tremendamente piccola, quasi impercettibile. Il vento trapassa il legno e s’infila tra le aperture dei cappotti, negli occhi dal ricordo annebbiato e sulla pelle bruciata dal gasolio. La casa è fatiscente ma si aggrappa alle sue pietre: è un vecchio mulino resistente ai temporali e agli inverni. Si raccontano storie, quelli là, si parlano in una lingua lontana, si odiano e si amano in uno scioglilingua infinito. «Invitation», il signor Iver mi porge il piatto sbrodolante di riso sugoso, sempre quella roba che ti resta a dondolo per lo stomaco una notte intera e ti gonfia finchè non giuri a te stesso che non la rimangerai. L’invitation finisce nel vuoto, esco per una boccata d’aria e so già che l’eskimo starà al fresco sul balcone per almeno due giorni. All’ingresso Oumarou parla al telefono camminando su e giù col vestito da sera e il piumino da donna in taglia doppia, tripla o che ne so: questo c’era e questo ha preso. Internet va e viene, siamo in un buco nero e non passa un filo d’aria. I fari spalancano raggi accecanti sul cortile, per ospiti che non arriveranno mai. “Ci vorrebbero due polli” penso. “Ci vorrebbero due polli e un gallo, per continuare a sperare”. Il signor Iver si rulla una sigaretta, va tutti i giorni in paese a comprare il tabacco con i pochi spicci che si ritrova. «Quello poco soldi, cortesemente». Gli piace utilizzare gli avverbi difficili. Una strada lunga e deserta, una road scarperiese in mezzo ai campi dove nella sera danzano poche vetture assonnate.

Scendo di nuovo giù al mulino e aspetto l’ora giusta per andarmene via. Bouba sa che non tornerò più e mi guarda sorridendo, quasi complice. “E’ con grande dispiacere, è con immenso dolore che…”

Una stretta di mano ed è andata per sempre.

«Non perdere mai la speranza». La frase, orfana di lacrime, esce dalla mia bocca come un addio in grande stile. E’ una pugnalata che fa crollare i muri. Perchè crolleranno, questi muri, nevvero? La speranza apre faglie disumane.

“Avrai il tuo bel soffrire – penso – ma ti salverai, Inch’Allah…perdìo”

Il signor Iver porta gli occhiali, ma mi vede a stento questa sera. Sta male e non lo dice, non vuol pesare il signorino. Sarà lui a condurre la rivoluzione nigerina, quando sarà il momento.

«Niger è il paese più povero del mondo, pieno di soldi. C’est vrai. Ma c’è francesi, e cinesi… Io ultimo di sette figli, ho preso il mare ma pour connaitre le monde».

Mica voglia di lavorare come gli altri, l’intellettuale, lui vuol connaitre…dècouvrir…

«Ma ci rivediamo presto, no?». “Non ci rivedremo mai più caro Iver”, penso.

«Certo che ci rivediamo, la settimana prossima, tutt’al più quella dopo. Promesso». L’ultimo abbraccio è un bacio velenoso, un dolce elisir di finevita.

Mi volto e me ne vado per davvero, imboccando il sentiero sterrato che porta dritto a una mattina gelida.

Vicchio si è appena svegliata sotto un sole invernale che sa di festa. Io non dormo quasi più, ormai, e la radio frulla di nenia…:

Adius, per cinquemila anni io ti ho amato, e adesso…?

La interrompe uno squarcio viscerale: «Disgraziato! Ma dove vai da solo! Vedi che fra poco vengono gli zii!». Mamma si preoccupa sempre per me, mi guarda dalla finestra mentre filo via e filo via perchè c’ho il giorno libero e la voglia di crepare. Al Baraonda l’aria fumosa è distesa e rilassata come la pancia tondeggiante di Remino. Claudione si fa il suo secondo rullo, con la sciarpina rossa e blu e la giacchetta all’Ebeniezerscrooge mentre io m’annaffio il sangue col primo caffè.

«Nellino ma icche’ tu guardi, bada che se quel culo sapea parlare t’arebbe già dato di bischero!». Tintinnii, buongiorno, il solito bicchiere, old holborn giallo, una spumina bionda e così via. E’ quasi mezzogiorno e il popolo in massa t’arriva a godersi l’aria sabatina.

«Oissa! Ci si vede dopo, salgo a far due passi». M’avvio su verso il paese, salgo e riscendo un po’ sognante. Poi incontro la Maria che zoppica, è bianca come un cencio.

«Maria, buongiorno, ti sciancasti?». La sua voce non è più quella di un tempo. Mi faceva la befana da piccino, veniva a casa a portarmi le robine dolci, i biscotti e un’allegria forestiera.

«Sono vecchia amore mio, e c’ho pure una cosa brutta che m’è venuta ché mica mi bastava la vecchiaia per affossarmi. C’ho pure ‘sta roba qua che mi sta mangiando den…».

Te ne andrai anche tu nel silenzio, nevvero?

«Vieni qua». Un abbraccio che non le ho mai dato prima. Poi si stacca senza dire niente con una smorfia tra il dolce e il disperato. Se ne va claudicante, con le foglie gialle che le impediscono il passo.

E’ proprio il ponte dei morti, persino Oti ha tirato il calzino. Oti l’immortale, il ballerino, è finito pure lui sotto le macerie urlando l’ultima briscola della sua vita. Il lago oggi sembra un immenso tumulo, una lapide acquosa sopra un cimitero marino, ha un fascino di cartapesta, una immobilità maledetta, da qui non si esce più, o si affonda oppure ci si incaglia vita natural durante.

Mica una mattina allegra, questa qua. Scivola via come un mostro pesante, fino a sera.

Ore diciotto e trenta, ed è già buio pesto. Claudione ricompare all’enoteca, in mezzo alla solita folla. «Che fai domani, Flog o Autodromo?». Un vinellino rosso bello forte da scaldare il sangue e Vicchio by night diventa un corso male illuminato, preso contromano ogni cinque minuti e insozzato di gente.

«Oh è arrivato il Giuda! …Fai più le notti in bianco Bokà? E la scuola? Pure quella hai lasciato…!». La friulana sibila un “traditore” da niente, smorzandolo con occhio comprensivo.

Pure il vecchio capo mi ha dato di Escariota. «E’ stato breve ma intenso», gli avevo detto, stringendogli la mano. «Vai a cagare va’, ti sei perso l’indeterminato», mi ha risposto. Importa assai, per quelle due lire, manco fossero i trenta denari.

All’eno parte il treno politico, e ci si azzuffa malamente: «Allora la soluzione è semplice te la dico io: si va una fiammata di gente a Palazzo Chigi e si occupa le stanze, 20.000 persone a stanza fatte bene, e si nomina i responsabili, e poi se quello fa icchè deve fare bene, sennò alla gogna. Tanto sennò Loro continuano a buttarcelo». E via ancora con i carabinieri a Gaza, il capitalismo e la fisica dei quanti.

La piazza si ricopre d’una barzelletta ciancicata e noi restiamo lì seduti coi bicchieri in mano. Sul tavolino in ferro il tabacco, le cartine e l’accendino, un piattino sudicio e una coltre d’umido notturno. Poi ci rialziamo agile per la pizzata, scendiamo il viale alberato con le chiome al vento. A Sagginale la bandiera Arci sventola fumosa e un capanno di gente ci accoglie tra i rimproveri per il ritardo.

“Mai fidarsi degli amici – penso – mai fidarsi. Hanno il volto di una grazia assassina.”

La pizza fuma di tartufo e cipolla, di salsiccia e gorgonzola. «Ci vuoi anche due topini morti?» esclama Marrico. Intanto Piernicola misura la sua perfezione sulla trippa da ultrasettantenne, canticchia una canzone, è allegro e si sciala come sempre.

Neil Young riecheggia da una stanzetta lì vicino, Out on the weekend, con quel ragazzo che corre trafelato in strada cercando di rimanere da qualche parte nella testa di lei. Qualcuno a tavola è stanco e ha gli occhi tirati come i siberiani, qualcun altro è arrivato in ritardo chè il Giuda gli ha detto l’ora errata, qualcun altro ancora si versa la sua birra in silenzio.

«Lor signori vogliono il dolciuino?»… Chi cede e chi resiste.

Spendiamo quindici euro a cranio, una meraviglia. «Per il bicchiere d’acqua quant’è?» «Una cara buonanotte e grazie» risponde Piernicola.

Sul ponte di Annibale l’aria s’è fatta più gelida e il mio cappello islando-nepalese è una stufa per il capo. La Sieve porta dritti al tavolino di un pub, dove il rumore dei soldi, i passi per le scale, lo stillicidio alcolico…dove lei tiene la testa appoggiata sul palmo della mano, un’altra lei cambia discorso perchè inopportuno, e lui ancora, laggiù, col cappellino nero pensa malinconico alle prossime canzoni.

Un tipo tetro grida «son disoccupato e bevo whisky!», e blatera di punk americano, di Ramones, di Beatles, di Elton John…

«Roba da froci questo, roba da froci…e tu sei un comunista, omofobo per giunta, infido dio bono, sei nessuno te nevvero?»

Claudione se la ride sprezzante. «Mi diverto troppo, starei delle serate intere a parlarci..».

Nel frattempo si fa un brindisino semplice, una lambic, un tè per digerire, un amarino per dimenticare. Uomini e donne si scambiano espressioni complici e il pub ribolle di piccoli miracoli serali. Guardo tutti un po’ distratto, un po’ straniero, come un paese storto e abbandonato.

“Eppure mi piace questo luogo, voglio stare qui tra le persone che amo, prendermene cura, confessarmi e sentirmi vivo”. Mi guardo attorno ma le voci diventano ovattate, voci opache sempre più lontane. “Resta, non te ne andare”.

Il Boka bisbiglia una storiella che dice “vattene con stile, in silenzio, tornatene là da solo avanti al fuoco a rimuginare nel peccato, riscuotere il plauso del demonio, sognare la morte”.

Qui al pub s’è fatto tardi, la tentazione di mollare è forte. «Sei un tipo evanescente, tu…». L’amico sa già che tradirò tutta la banda, tutto questo ambaradam di giuramenti e amicizie, di patti e promesse sempiterne, come quel giorno di inizio giugno e un gruppo di ragazzi in cerchio:

«Tornerà prof?»

«Certo che tornerò, il prossimo anno. Voglio vedervi soffrire ancora un po’, mie care bestioline. Voi datevi da fare e non fate danni. Ci vediamo».

«Prof non faccia scherzi! Ciao!»

Ciao.

Mezzanotte e trentacinque, mi alzo e me ne vado, nessuno nota niente. Fuori tira un vento nero come un corvo a presagire il fatto.

Poco lontano un uomo riposa ai piedi di un lampione, la sua pelle ha i colori del mondo. E’ vestito a festa e sorseggia placido un bicchiere di rosso, prima di alzare due occhi azzurri come il mare. E’ arrivato, finalmente.

«Il faut payer, hai mica bevuto gratis, bell’uomo».

Stavolta le conduce lui, le milizie del popolo. Ma hanno l’aria da niente, perdìo. Infine un lampo nel cielo, cessa il vento, d’improvviso si schiudono le labbra.

«Buonanotte Giuda», mormora serafico.

«Salve Rabbì, ti stavo aspettando…».

Ivan Ferraro

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