Perché non vinca la propaganda

Perché non vinca la propaganda

di Mario Calabresi

UN’ONDA melmosa, composta di false percezioni, di paure e di sconsiderata propaganda, sta sommergendo il nostro dibattito pubblico, rendendolo sterile e spaventoso. La razionalità è scomparsa da un pezzo, sostituita da emozioni, immagini forti e pericolose semplificazioni. È diventato molto complicato riuscire a ragionare chiamando le cose con il loro nome, rispettando la realtà e le sue sfumature.

Si sono persi di vista numeri e contesti: nessuno ha più il coraggio di far notare che 100mila persone che arrivano dalle coste africane sono certo tantissime e destano allarme (una richiesta di sicurezza che le Istituzioni troppo a lungo hanno sottovalutato) ma sono pur sempre quanto i tifosi di due partite della Roma o del Milan. Li si può contenere in uno stadio e mezzo di un Paese che di abitanti ne ha sessanta milioni. Questo non significa non condividere la necessità di provare a controllare e gestire i flussi migratori e il dovere di combattere i trafficanti di esseri umani, ma significa chiamare le cose con il loro nome e non accendere allarmi sociali che rischiano di devastare la nostra società. Che il senso della realtà sia smarrito lo racconta la percezione dei numeri: gli italiani sono convinti che ormai un quinto della popolazione sia di religione islamica, quando lo è meno di un trentesimo.

L’onda melmosa chiude gli occhi e rende tutto dello stesso colore, impedisce di cogliere differenze fondamentali, così un immigrato che spaccia cancella tutti quelli che riempiono le cucine dei ristoranti, scaricano le cassette ai mercati generali, fanno il pane la notte, tengono vivi i pascoli, vendemmiano o si prendono cura dei nostri vecchi.

Allo stesso modo la legge che viene definita Ius Soli è stata criminalizzata, snaturandone completamente senso e finalità. Non c’entra nulla con sbarchi e accoglienza e serve a integrare chi è nato in Italia, ma questo poco interessa a chi gioca con le paure e subdolamente insinua che i compagni di classe dei nostri figli potrebbero essere terroristi in erba.

Questa propaganda e questo imbarbarimento del discorso hanno fatto breccia e, come ci ha raccontato domenica Ilvo Diamanti, stanno vincendo.

L’ultima vittima sono le Ong, le associazioni di volontariato e quella parte della Chiesa che è più impegnata nell’assistenza. Colpevoli di non sottomettersi al nuovo politicamente corretto, che è l’esatto ribaltamento di quello vecchio e proclama a gran voce che ci siamo rotti le scatole dei bisogni e delle sofferenze degli altri. Lo slogan berlusconiano “padroni a casa propria”, coniato per favorire le ristrutturazioni, ora è diventato una filosofia e un modo di essere che giustifica qualunque comportamento e assolve da ogni responsabilità. Ammette addirittura la rinuncia al pensiero razionale. Non possono esistere due Italie: quella che sta con gli italiani e un’altra che sta con gli scafisti. È il senso profondo che si può cogliere anche nel messaggio di Mattarella: i diritti degli uomini e le regole che li governano devono stare assieme.

Certo, c’è chi ha sbagliato, ma di fronte a singoli e circoscritti episodi di presunto favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mai — secondo gli stessi magistrati che hanno mosso l’accusa — per motivi di lucro, si criminalizza un mondo di cui invece dovremmo andare orgogliosi.

Non importa che esistano Organizzazioni non governative che agiscono su scala globale e piccole associazioni nazionali, che ci siano organizzazioni umanitarie che si dedicano all’emergenza e altre che fanno assistenza, prevenzione, non contano le storie di ognuna di loro, la competenza e la trasparenza, non hanno valore le biografie di medici, ingegneri, agronomi, sacerdoti, insegnanti, cooperanti, conta solo colpire nel mucchio per poter rafforzare il nuovo paradigma.

Perché funzioni, il discredito va diffuso ad ampio raggio, va usato come un’accetta e nessuna distinzione è possibile. Se poi si condisce il tutto con una buona dose di volgarità e di insinuazione, allora si arriva al risultato di gettare il sospetto su un intero mondo.

Un mondo che è tanto italiano, perché siamo un Paese che si è sempre speso in silenzio, dando esempi di impegno e di volontariato incredibili. Se gli si può rimproverare qualcosa è proprio di essere stati troppo silenziosi, loro che potevano spiegare a tutti noi cosa succede dall’altra parte del Mediterraneo, aprendoci gli occhi sulle situazioni di crisi e le possibili ricette. Finora ci siamo accorti di quel mondo solo quando arrivava la notizia di una morte, penso a persone come Maria Bonino, pediatra piemontese morta in Angola mentre cercava di contenere un’epidemia di febbre emorragica.

Di fronte all’onda melmosa, un giornale ha una sola possibilità: restituire ai fatti e alle parole il loro significato e cercare di ripulire il dibattito dalle scorie e dai veleni.

La Repubblica 8.8.17

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