Bokassa non paga – PANTA REI

Bokassa non paga
PANTA REI

 

«Parto di notte, è chiaro?»
«Di notte è pericoloso non si vede niente è buio! (Ma poi dove vai, sempre solo sempre solo sempre solo sempre solo sempre solo! – potrebbe dirlo, ma non lo dice più – Sempre solo!). Stiamo in pensiero, a noi non ci pensi??
«Uhuh – potrei spingere sull’acceleratore e gloriarmi di lacrime materne. Ma no, ché mica è tanto sano. Lascio perdere – Suvvia, non sono un poppante, dai. Falla finita. Ho capito, i panni a lavare, va bene mi fa comodo. Ma quando torno cambia tutto. Dov’è il babbo? …Wè, vabbuono…grazie…ci provo. Ciao babbo, mangia poco ed evita il pan…vabbè dai, ciao»
Mi allontano a piedi verso la stazione, è scesa la nebbia perchè è finita la fiera. O viceversa. Pioviggina e la temperatura è in calo. «Son passato da Vicchio ieri pomeriggio, ero dalla mi’ nonna. Pazzesco, la pioggia…i banchini…la strada bagnata… tutto uguale. Sono andato via sgommando. E tu, Bokà? Che combini?». Nessuna risposta. Cammino più veloce, mentre un fischio vicino e l’arrivo di un treno sbaragliano i passi silenti. Mi volto e la donna dal vestito a fiori sorride alla finestra. Saluta con la mano, un po’ meno illusa del solito. Lui no, è già tornato dentro e sistema le casse con gli ultimi pomodori.
La valigia è pesante, anche se non c’è poi tanta roba. Ho l’auto
nascosta di là dalla strada. Salgo su, metto in moto, e vado. I primi chilomentri scaricano adrenalina pura, s’involano tra i rivoli di asfalto rimasto dopo il caldo d’agosto che ha sciolto ogni cosa. La nebbia refrigera, porta raffreddori e mal di gola, ma rinfresca come una falsa benedizione. E’ finita l’estate. E’ finita la guerra, gridava il partigiano, con la pancia piena di sangue. Esule mi lancio in una nuova e breve dipartita. E’ strano partire così, in solitaria e con un altro cerchio che si chiude, smollando ai social i ricordi di spiagge e famiglie felici, di acque limpide e bevute con gli amici attorno al fuoco. Accendo la radio, musica classica, poi la seconda di campionato, e il nuovo governo, per dio! Un altro giro di vento, nuovi entusiasmi e clamori. Tutto scorre, tutto è in divenire. Bene, o male.
Oltrepasso l’Appennino, la strada che mi garba tanto, quella tutta curve e senza sbirri, quella delle sbronze latenti. La luna la illumina come una madonna prima dei fumi infernali di Ravenna, prima delle insegne luminose e dei quartieri industriali sul canale. Ah! Questo mese è stato così pieno di sonno e boria, sospeso tra il buio e la luce, tra il rischio e l’immobilità, quasi fossero le due parti di una stessa moneta. Dovrei fare attenzione, come dice la nonna… ma con aria disinteressata, ché tanto lo sa anche lei come va a finire.
«Lo sai vero?»
«Che dicisti?». Mi siede accanto, con le mani posate sull’abito da casa consumato ai bordi.
«Dico che ho sognato il nonno. Era vestito di nero, su sfondo bianco come in uno di quei paesini greci pieni di vecchini seduti con la coppola a giocare a dadi. Era invecchiato ancora un po’, con ‘sto caldo non era molto in forma ma se la cavava, rinfrescandosi ad una fonte di acqua fresca. Mi raccontava che era appena stato al bar dove avevano giocato a briscola e bevuto e ballato, lo diceva facendo un gesto orizzontale con la mano aperta, come a dire: “Mi scialau”. Mi ha fatto piacere rivederlo». Esterina ha gli occhi molli, sospira e trattiene la pioggia in un gioco di resistenza, ché tanto il pianto toglie strati al dolore ma dopo una certa età forse non c’hai tutta ‘sta voglia di mostrarti. Affacciata al finestrino guarda i campi correre là fuori, come se fossero immensi cimiteri. I morti se la spassano più dei vivi, alle volte, nevvero? La calma è la loro benedizione. Ti appaiono in sogno senza ansie, forse per spingerti a portarti dietro quello stato d’animo placido e sereno, con gli occhi leggermente strizzati e la pelle, quella dura pellaccia brunita dal sole che non si rassegna mai. E resiste, per l’eternità. La resistenza è un concetto arduo e complesso, si dipana tra strategie emergenziali, piccoli spiragli nel cielo, maglie aperte all’improvviso, squarci dell’esistenza e, infine, piccole decisioni ordinarie.
Fuori l’umidità ingoia il centro abitato, dentro avverto un leggero calore. La nonna è sparita, di nuovo solo espello piccoli batuffoli di fumo per combattere il sonno. La boria e il sonno, già. All’improvviso cerco il lago ai millessette, il vento tra i capelli e il braccino fuori dalla Panda. «Vattene da lì – mi ha
detto, prima di telare – c’hai solo da muoverti una volta per tutte, non badare a noi».
L’ho fatto, per dio, magari non per sempre. Ho viaggiato lungo strade lisce e infernali, sotto dipinti di stelle e Sambuca, nell’acqua che sbatte sugli scogli livornesi. Ho avuto il mio da fare per imbrigliare il tempo, sentirmi a mio agio, adesso, da qualche parte. Ovunque. Perchè ci vuole una patria, di tanto in tanto, o no? C’è chi non sta mai immobile, chi cambia casa mille volte, e non ne sente sua nemmeno una. Solo che poi inizia a pesare. La patria! Dov’è la patria che tanto osannate?! Libano, Svaneti, Djupavik, Galliano, Trieste, al di qua del mare, al di là del mare, al di là del bene e del male. Tutto sembra adagiarsi a patria, finchè la voce in stazione non richiama ad altra meta, finchè nuovi dolori e doveri non riaprono le porte dei treni. Ti pare poco tutto ciò? Ma insomma dove devo andare? Cosa devo fare?
«E tu? Come ti senti?». Km 35, la nonna se n’è andata, adesso è qualcun altro. I suoi capelli sono mossi e lunghi.. i lineamenti, prima grinzosi e scolpiti, lasciano il posto a una pietra levigata, a un volto deciso di una sicurezza “maschia” che cede di colpo a piccole ridenti cadute. La voce riecheggia nella notte, e una dolce frenesia occupa l’abitacolo.
«Alla fine non ho più niente lassù, ogni legame è compromesso. Quando te ne vai così presto, c’è poco da fare. La vita si sfilaccia». La guardo malinconica perdersi in una delle sue analisi bastarde. Eppure tutto scorre comunque, sempre e per sempre. Agosto è stato un mese vivo, ha sacrificato gli interstizi da tedio, quelli da penichella e giramenti di testa, ha donato gli androni deserti in cambio di appennini, autostrade infinite, bevute stellari e docili fiumi.
Alla radio, dei poveri disgraziati boccheggiano su una nave a largo di uno scoglio. « Come mi sento? Male. ‘Sta roba mi manda in bestia, penso al mi’ nonno e mi manda in bestia. Lui ha fatto la guerra ed è tornato a casa con dei documenti falsi. Era finito in Albania, si è beccato la malaria, e gli hanno detto o ti vai a far curare in un ospedale greco per poi uscire ed essere considerato un soldato nemico oppure torni in su. Ha scelto la seconda, insieme al suo battaglione. E’ sbarcato a Venezia, nel frattempo era passato l’8 settembre e noi s’era deciso di diventare alleati, quindi è arrivato come soldato nemico dei tedeschi, che lo han preso, montato su un treno direzione Auschwitz. Prima del confine con l’Austria ha aperto il portellone, è saltato giù con altri compagni, s’è nascosto e poi ha beccato un SS che gli ha fatto documenti falsi. Gli è andata di culo. Nel frattempo a casa lo davano per morto. Da lì è tornato a casa, e da lì si è nascosto fino alla fine della guerra. Capito?».
«Capisco, me la fai una sigaretta?». Ci fermiamo, la luna compare dal nulla e mi chiudo in un pianto religioso e senza lacrime. Da lontano vediamo Firenze, una cappa infernale, mentre sul sedile posteriore abbiamo un sangiovese sdraiato che non berremo mai, un cibo lasciato a marcire, il caos.
«Era bello il mare. E le montagne sopra il bosco fitto? Quando si è aperto…Pam! E la via lattea, per dio».
«Già, se avessi questo posto dietro casa. Guarda quest’acqua. La villa fatiscente, la solitudine»…
«Ci vediamo quando torno, palletico, e grazie di cuore»
Risalgo in macchina, km…km…non saprei davvero dire. Il Sangiovese rotola, sento il tintinnio contro le chiavi.
«Dobbiamo smettere di bere»
«Parla per te, coglione», sentenzia ridendo, mentre i capelli neri e folti, più scompigliati del solito, gli gettano il solito alone di falsa inettitudine.
Ormai l’offesa è amica, non ci sono più barriere. E’ giusto così. Anzi, «credo che…sia giusto così», ripete con la voce che gli trema. Ognuno ha le sue croci da portare, la fine dei giochi. Le lagne si susseguono e non saremo mai felici. Il ragazzo dice qualcosa e si addormenta, soprattutto lungo l’autostrada. Lo fa sempre. Poi rialza il capo, rintontito.
«Sto male. Ce l’hai un oki?»
«Ce n’ho uno solo»
«Ah»
«Lo vuoi te? Io ho mal di schiena ma…»
«No prendilo te»
«Ma no dai»
«…mmm…»
«Ma va preso a stomaco pieno?»
«Eh sì…Vediamo dopo mangiato chi sta peggio ok?»
«Vai!»
«Bella serata eh?»
«Bellissima»
«…«
«Oh io sono arrivato»
«Dove vai?»
«Non lo so, troverò qualcosa da fare. Ci vediamo…coglione»
Mentre saluto avverto un dolore lancinante al braccio sinistro. Chiudo il pugno e lo riapro a più riprese. Due minuti e passa. Dovrei essere a metà strada, circa. Ma il paesaggio scorre senza un punto di arrivo. Cos’è? L’alba? la pompa di benzina? Un’isola sperduta? Dove diavolo sto andando?
«Te lo avevo detto, dove te ne vai tutto solo? A breve iniziano le convocazioni, vuoi restarne fuori?! Benissimo, sei libero. E poi? Eh?»
«Zitta ma’, per dio»
«Zitta un corno, guarda Tizio, e Caio?? Caio lo hai visto? Persino lui!»
«Scendi»
«No!»
«Eddai scendi! Scusa dai…davvero…ciao»
«se se, vabbè…vieni a cena stas..» Vruuummmm (riparto).
Ancora un fischio, stavolta più lontano. Svolto a sinistra lungo una via mezza buia, coi lampioni che sfrigolano scintille ed elettricità. Mi batte il cuore di brutto e non so perchè. «Bokassa dove vai? Senti che silenzio…non è adorabile?» E’ notte fonda.
Più fonda di prima, più fonda di ogni notte e di ogni sempre. Settembre vibra come un terremoto, come l’eco di un gioco azzardato. Il piazzale è vuoto e c’ha l’aria di niente. Eppure alla guida non sono più io, ma una sagoma scura che non distinguo. Mi sollevo dal sedile e faccio per uscire, ho il fiatone e tremo. Il braccio torna a farmi male ma, forse, ci sono. Un sussulto attraversa le spalle e la schiena. E’ stata dura, ma è stata, no? Il viaggio prima o poi giunge alla fine, non è così che funziona?
I suoi occhi spuntano a tratti dall’oscurità, e la bocca si schiude mentre col busto si piega in avanti, per salutarmi ancora.
«Allora… hai preso tutto?»

Ivan Ferraro

One thought on “Bokassa non paga – PANTA REI

  1. “Cammino più veloce, mentre un fischio vicino e l’arrivo di un treno sbaragliano i passi silenti.”
    “Ho avuto il mio da fare per imbrigliare il tempo, sentirmi a mio agio, adesso, da qualche parte. Ovunque. Perchè ci vuole una patria, di tanto in tanto, o no?”

    Talvolta il “come” lo dici arricchisce il “cosa” dici.
    È quello che chiamano poesia, credo.