La facile tolleranza (quella di vent’anni fa)

La facile tolleranza (quella di vent’anni fa)

di Riccardo Bianchini

dal blog

academicallyincorrect.it

 

Vent’anni fa, essere tollerante era scontato, ovvio, banale, praticamente di sistema.
Solo pochi sporadici incolti, non curanti del fatto che gli altri li avrebbero tacciati, appunto, di essere incolti oltre che retrogradi, osavano manifestare pulsioni di intolleranza.
Ma in fondo, cosa c’era da tollerare? Da tollerare faticosamente?
Non tutti se la passavano bene, i problemi si sa non mancano mai, di stragi, misteri e segreti vari(da decidersi quali attribuibili allo Stato e quali all’Anti-Stato) non si è fatto parsimonia, ma il ceto medio era ben assestato nell’attesa di un XXI secolo dalle magnifiche e progressive sorti. Il ceto medio aveva belle speranze, soldi in tasca, la possibilità se non la quasi certezza di veder i propri figli dottore e non c’era più troppo bisogno di cantare arrabbiati col pugno chiuso canti partigiani e popolari nelle feste dell’Unità.
Il ceto medio era appunto ceto medio. E come tale era naturalmente tollerante. E l’intolleranza verso il diverso, così irrefrenabilmente infuocata dalla rabbia, non aveva di che nutrirsi. La tolleranza era scontata, era una facile tolleranza, alla portata di tutti.

Poi le cose sono cambiate. Ci si sarebbe aspettati un lento cambiamento, e invece sono precipitate. Ed allo sconcerto di chi si stupisce dell’omofobia esclamando “Ma siamo nel 2010!“, rispondeva il protagonista di Mine Vaganti di Opzetc constatando rassegnato che “Appunto, non siamo più nel 2000“, così sancendo il definitivo naufragare delle magnifiche e progressive belle speranze del nuovo millennio.
A cambiare rapidamente è stata la strutturale sociale: il ceto medio si è rapidamente scoperto povero o a rischio di povertà, con poche speranze per sé e con ancor meno illusioni sull’avvenire dei propri figli. Partire, andare, emigrare: non più solo cervelli in fuga verso dottorati correttamente retribuiti in università estere (dopo che il sistema universitario pubblico li aveva ben formati a spese di tutti, per poi vederseli fregare sotto il naso da chi può permettersi politiche culturali più efficaci) ma anche e soprattutto braccia e gambe per lavoretti qualunque che in Italia cominciano a scarseggiare. Il ceto medio scopre la precarietà del cottimo e l’incertezza della crisi economica. Si sconforta e nemmeno ha la forza di rendersi conto del disastro previdenziale che si sta preparando (non mi riferisco alla Legge Fornero, ma alla incertissima situazione previdenziale della Millennial Generation).

Intanto la boghesia, in senso proprio, ha perso. Ha perso perché ha vinto troppo e non è più borghesia e non ha più bisogno di un ceto medio.
La sua battaglia principale, quella che sotto il vissillo del liberalismo (e del liberismo) ha combattuto per qualche secolo contro gli antichi fasti dei ceti nobiliari dell’Ancien Régime è stata vinta, e nel corso del XX secolo stravinta. E anche le alleanze tattiche di volta in volta pattuite con poteri allora egemoni e apparati clericali ben presto non sono più servite. Il nemico naturale – quello contro cui è combattuta la guerra secondo una linea strategica – era la vecchia nobiltà, la nobiltà che si appoggiava a distinzioni di status giuridico, la nobiltà che si appoggiava alla indisponibilità dei rapporti giuridici e alla indisponibilità del potere normativo in capo al potere politico.
La modernità borghese aveva bisogno di uomini giuridicamente tutti uguali, dotati di un medesimo status che fossero liberi di contrattare, affinché grazie a questa libertà di contrattazione fosse possibile conseguire sul piano economico quel vantaggio che si può ottenere solo da individui emancipati da tradizioni storiche di tipo protettivo, di nessun tipo. E specialmente che non vi fossero monopoli legali, che devono essere abbattuti perché solo in un mercato effettivamente contendibile ed effettivamente conteso il principio del liberalismo potrebbe efficacemente funzionare e consentire lo spiegarsi di un percorso di progresso di civiltà il progresso verso un maggiore è più diffuso benessere
Ma la borghesia in fine ha perso e lo ha fatto per eccesso di vittoria. La nobiltà è scomparsa: la nobiltà dell’Ancien Régim è scomparsa e al suo posto troneggia e trionfa l’Homo di Davos. Ossia quel un per cento della popolazione mondiale che detiene la ricchezza del mondo ed ha vinto contro ogni altro regime. La nuova nobiltà.
Chi ha perso, e chi ha perso di sicuro grazie a questa vittoria sconcertante, è la “piccola borghesia”, fulcro e anima del ceto medio.
Adesso che statistiche impietose mostrano la decadenza del ceto medio occidentale, il suo assottigliarsi, il suo impoverirsi, il suo polarizzarsi fra i pochi che riescono ad agganciare non si sa più quale ascensore sociale e i molti che scivolano verso i prodromi della povertà; adesso viene da pensare che il ceto medio sia stato solo una parentesi moderna destinata presto a concludersi sotto i colpi dell’insostenibilità socio-economica: non ci sono più nuove colonie da sfruttare, e quelle attuali (che non vengono più chiamate così ma che, economicamente, continuano ad esserlo) non sono sufficienti a garantire i livelli di benessere degli ultimi sessant’anni ed anzi danno corso a imponenti fenomeni di immigrazione.

Già, l’immigrazione.
E adesso che non c’è più la facile tolleranza della pancia piena davanti alla televisione accesa e con la sicurezza di un prospero futuro, chi è ancora in grado di essere, per davvero e propriamente, tollerante?
Adesso che è possibile essere apertamente, sfacciatamente intolleranti, adesso che la crisi del ceto medio aizza malumori che sdoganano la legittimità delle pulsioni della rabbia, è il momento di vedere chi è davvero tollerante e chi invece non trova miglior modo di sfogare il proprio senso di rivalsa sociale nell’aggrapparsi nella divisione nazionalistica di un “noi” opposto a un “loro”.

Non c’è più nessuna facile tolleranza, e occorre dimostrare sul campo chi davvero sa non cedere alla rabbia sociale.

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