Sulle vere cause degli esodi di massa

Sulle vere cause degli esodi di massa
18.11.2015

Sebbene nel corso dell’estate l’attenzione sui flussi migratori sia concentrata prevalentemente sulla rotta balcanica, i numeri ci dicono che i viaggi a bordo di barconi fatiscenti che partono dalla Libia o dall’Egitto e si dirigono verso l’Italia hanno mantenuto un trend costante.

IN BREVE

  • Il flusso lungo i confini meridionali dell’Europa è divenuto un fenomeno imponente e strutturale, la cui gestione dovrebbe uscire da un’ottica emergenziale
  • È dai paesi retti da dittature o abbandonati a una dimensione post-statuale, che proviene la stragrande maggioranza dei profughi
  • Ciò su cui l’Unione europea si dimostra debole è la scarsa capacità di aprire una riflessione sulle cause degli esodi di massa

Secondo i dati dell’Agenzia Frontex, dall’inizio di gennaio alla fine di settembre, circa 128mila profughi hanno cercato di raggiungere la Sicilia e l’Italia meridionale via mare. Tra questi, oltre 26mila sono eritrei, 13mila nigeriani e – in quantità minori – somali, sudanesi, etiopi, gambiani.

Sono più o meno gli stessi numeri, già imponenti, del 2014. L’unica differenza rilevante è la progressiva scomparsa dei siriani lungo questa tratta di mare. Oramai i siriani prediligono il percorso lungo i Balcani.Sempre nei primi nove mesi del 2014, sono entrati in Grecia (prevalentemente tramite le piccole isole dell’Egeo) quasi 360mila profughi.

Di questi, 150mila sono siriani e circa 50mila afgani. In 205mila poi, risalendo attraverso la Macedonia e la Serbia, sono entrati in Ungheria – nonostante il muro di filo spinato fatto erigere dal governo di Orban.
Questi numeri non ci dicono solamente che il flusso lungo i confini meridionali dell’Europa è divenuto un fenomeno imponente e strutturale, la cui gestione dovrebbe uscire da un’ottica emergenziale.

Ci confermano oltremodo che non siamo chiamati a fronteggiare un indistinto Sud del mondo pronto a invadere il vecchio continente. Ci sono piuttosto precise aree geografiche e precisi paesi implosi politicamente ed economicamente.

È da qui, da questi paesi retti da dittature o – più sovente – abbandonati a una dimensione post-statuale, che proviene la stragrande maggioranza dei profughi.

È da qui che provengono uomini, donne e bambini che sono pronti a andare incontro alla morte (nel chiuso di una stiva o di un cassone di un tir) pur di varcare i confini dell’Unione europea. Non lo fanno per incoscienza. Se lo fanno, è perché alle spalle non hanno letteralmente più niente.

Non hanno la minima prospettiva di condurre una vita decente lontana dalle bombe o dalla cappa asfissiante di una società totalitaria.

Sono profughi, nella stragrande maggioranza dei casi; non sono genericamente migranti. E pertanto possono avanzare una richiesta d’asilo, sperando che questa venga ragionevolmente accolta in tempi brevi.

Tale discorso non riguarda solo i siriani in fuga da una ‘guerra totale’, i nuclei famigliari che hanno affollato i campi profughi in Libano, in Giordania e in Turchia ancora prima che solo una parte di loro si dirigesse verso l’Europa.

Riguarda anche i principali gruppi etnici in fuga, per come i loro viaggi sono censiti dalla stessa Agenzia Frontex.

Prendiamo ancora una volta in considerazione gli approdi lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Da tre anni, il 20-25% dei profughi che arrivano sulle coste italiane è costituito da eritrei.

Fuggono da una dittatura spietata, quella di Isaias Afewerki, edificata dopo una lunga lotta di liberazione nazionale condotta contro l’Etiopia.

Nella più classica logica staliniana, il governo nato dall’élite del Fronte popolare si è trasformato in un regime che ha messo al bando ogni forma di dissenso o opposizione, e ha mutuato le peggiori forme degli oppressori di ieri.

Come dimostrato da una recente commissione di inchiesta delle Nazioni unite, l’Eritrea è una sorta di ‘arcipelago gulag’ incistato nel Corno d’Africa. I ragazzi che affollano i barconi che partono dalla Libia fuggono da un servizio di leva obbligatorio (sia per gli uomini, sia per le donne) che il regime può arbitrariamente estendere fino a tempo indeterminato.

In pratica, le caserme si sono trasformate in carceri in cui rinchiudere, per venti o trent’anni, manodopera a basso costo. E le carceri vere e proprie si sono trasformate in gulag, in cui si praticano sistematicamente le più aberranti forme di torture.

Del fatto che ci sia una enorme ‘questione eritrea’ alle spalle dei viaggi della speranza si parla pochissimo in Europa, e ancor meno in Italia, benché l’Eritrea sia stata la sua prima e più longeva colonia.

La miopia sulle cause dei viaggi è stata alimentata della rimozione del passato coloniale e dei propri silenzi negli anni del lungo e travagliato processo di decolonizzazione del Corno d’Africa.

Pochi in Italia, ad esempio, sanno che alcuni degli attuali campi di concentramento da cui gli oppositori eritrei fuggono sono gli stessi campi di concentramento che volle edificare agli inizi del Novecento l’Italia e la cui gestione – di regime in regime – è passata dagli italiani agli etiopici e da questi alla polizia di Afewerki.

Eppure è solo storicizzando e politicizzando lo sguardo sull’esodo in corso, che è possibile decostruire termini piuttosto vaghi come ‘profughi’ o ‘vittime’ (benché politicamente corretti) e cogliere qualcosa di quanto sta avvenendo.

Lo stesso affinamento dello sguardo sarebbe auspicabile di fronte a ciò che accade lungo la rotta balcanica, con i siriani e con gli afgani.

Anche in quest’ultimo caso, delle cause della loro fuga – strettamente interrelate al fallimento dell’intervento militare occidentale dopo l’11 settembre – si parla molto poco in Europa.

Le frontiere non sono solo un sismografo della capacità dei paesi europei di accogliere effettivamente chi si mette in marcia. Sono anche un termometro di ciò che avviene al di là dei confini dell’Europa e che spesso non siamo in grado di decifrare.

La vera debolezza dell’Unione europea non è tanto nel non riuscire ad accogliere centinaia di migliaia di profughi o nel non riuscire a evitare le morti in mare. Sono entrambe sfide gravosissime.

Ma alla fine, sul primo punto, nonostante la riottosità di alcuni paesi, si andrà inevitabilmente verso un alleggerimento dei diktat imposti dal regolamento di Dublino, e verso una più equa redistribuzione delle quote fra tutti i paesi.

Quanto al secondo punto, la stessa Agenzia Frontex ha capito che per ridurre il numero delle vittime, bisogno rendere strutturale l’esperienza l’operazione Mare nostrum varata dal governo italiano alla fine del 2013. Occorre cioè inviare le navi delle nostre marine militari in acque internazionali, fino a poche miglia dalle coste libiche, e monitorare una vasta porzione di mare.

Nonostante alcuni mesi di colpevole incertezza, il pattugliamento del Mediterraneo sembra andare verso questa direzione. Non ha annullato il numero dei morti, certo, ma ha arginato sensibilmente il loro aumento.

Ciò su cui l’Unione europea si dimostra debole è la scarsa capacità di aprire una riflessione sulle cause degli esodi di massa. L’Ue pare incapace di elaborare una propria politica sulla Siria, sull’Eritrea, sull’Afghanistan e sulla Libia, ancora oggi crocevia dei viaggi in mano all’anarchia, dopo la guerra che ha portato alla deposizione di Gheddafi.

Di recente Bergoglio ha parlato del “diritto a non emigrare”. A chi scappa dalla guerra e dall’oppressione, lasciandosi alle spalle una casa, un lavoro, una città, un’intera esistenza, dovrebbe essere garantito il diritto di viaggiare in condizioni non infami, non in balia cioè delle angherie e dei soprusi dei trafficanti.

Ma c’è anche un altro diritto – sostiene Bergoglio – su cui si riflette molto meno. Il diritto a riacquistare una vita dignitosa – libera e giusta – nel proprio paese. Il diritto a ricostruire le macerie.

È un discorso molto complesso. È facile fraintenderlo perché appare difficile stabilire una netta linea di demarcazione tra il “diritto a non emigrare”, di cui parla un papa figlio di emigranti, e il refrain “aiutiamoli a casa loro” fatto proprio dalle nuove destre europee.

La differenza tra i due pronunciamenti è, ancora una volta, nella capacità di storicizzare e politicizzare lo sguardo su quanto sta avvenendo. Alle spalle della frase “aiutiamoli a casa loro” non vi è alcuna analisi delle responsabilità politiche e storiche che determinano i viaggi, ma solo il desiderio di allontanare nello spazio e nel tempo la risoluzione del problema, non escludendo in ultima istanza la possibilità di finanziare gli stessi regimi da cui la gente scappa per controllare i propri sconfini.

Non c’è solo chi vorrebbe più filo spinato ai confini dell’Ungheria. C’è anche chi vorrebbe più filo spinato ai confini dell’Eritrea.

In chi si schiera a favore del “diritto a non emigrare” c’è invece la volontà di auspicare una netta trasformazione dell’esistente – della vita comune e delle strutture politiche – proprio lì, nei paesi da cui si parte. È qualcosa che ha a che fare con quello che un tempo si sarebbe definito ‘internazionalismo’.

Ma, ciò detto, le difficoltà dell’Unione europea a spostare la riflessione su questo livello non è generata solo dalla difficoltà di elaborare una voce comune in politica estera, e dallo scoprire quindi come la polifonia che rimane sul campo sia sempre più flebile al cospetto di altri attori internazionali.

È data anche dalle scottature provocate dai recenti casi di “interventismo umanitario”, dai Balcani all’Iraq alla Libia, e dall’incapacità di gestire i lunghissimi dopoguerra laddove si è partecipato agli interventi.

Ancora una volta, i confini di terra e di mare attraversati dai profughi si intrecciano con le frontiere della propria storia, più o meno remota.

 

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