Bokassa non paga – ANA TABEN

Bokassa non paga

ANA TABEN

di Ivan Ferraro

Ecce ancilla domini, recita Maria all’Arcangelo, mentre più avanti un putto è sospeso lungo il corridoio. Ombre cinesi camminano dietro il vetro satinato, scorrendo verso destra, poi sinistra, offuscate presenze che scompaiono nel giro di secondi. In sottofondo un rumore costante, come di una ventola che aumenta di potenza e poi decresce, producendo un senso di tepore. Un’acuta voce spavaldamente si fa largo tra le maglie delle stanze, dispensa battute e sentenze, si ferma sulla soglia e sorride, «Come va oggi, sior Giovanni?». Sipario. I dipinti scorrono lungo la parete come una sfilata storica, i loro occhi olio-su-tela s’infrangono sulle panche in legno, sui vasi decorativi, sui pilastri del colonnato che imbriglia il pianterreno. Lascio un segno come fosse un fiore e smanio fuori sotto una luna lontana che ancora non si mostra. «Mi dispiace lasciarti qui. Sono mortificato, per dio. Ma davvero, torno presto. Soltanto una settimana, una settimana soltanto».

Corro fuori, la mente gira e sono già nella Bologna gelida e industriale. Ricordo nel pulmino altri due giovani del Nord, la loro esuberanza ardita. E la chiamata in aeroporto per un volo interno. Verso l’Europa: magari Berlino, o Praga, o Bruxelles. Per il Boka no, per lui c’era il medioriente in pace, isolato in una quieta macchia di sole. Il frastuono bellico rimbomba oltre confine: ma non lì, dove Amman profumava di vento, e il clima era quello di una perfetta giornata di fine inverno. Proporzionati alla necessità e ai bisogni dell’anima, i colori erano grigi, a tratti accesi ma senza stuccare.

Si sentiva bene il Boka, col suo eskimo a coprire il solito metro e sessanta di massa grassa e delirio. Svolazzava, ingombrava lo spazio circostante, gli stava male come un saio ma tant’è ché quello c’era nell’armadio e quello prese.

«Taxi!». E’ la parola su cui inizia e si chiude ogni viaggio. Taxi. Punto e a capo.

Finita. La Giordania adesso è laggiù, passata sulla mappa di ricordi offuscati dal tempo. Basta poco per farli morire, nevvero? Chiudersi in uno sforzo di recupero è complicato e può far male, ma val la pena afferrare ciò che resta, per dio. Dunque nessun racconto lineare, logico, fedele al vero. C’erano i mercati, sì… parole masticate in arabo, i soliti suoni pieni di acca e il timbro che s’invola per mezzo secondo e poi ricade. C’erano l’inglese di Manchester, il professore di storia in Corea del Sud, l’amante del cibo di strada. E Bokassa, che si rullava un drum sotto gli occhi terrorizzati dei giordani…

In tutto questo, che fa parte di un capitolo chiuso come tanti, ci sono anch’io. E’ venerdì e conosco bene la sensazione, la solita rabbia che catapultò il Boka nella ventosa Amman e nell’affollata Petra. Oggi come allora si conclude una settimana santa di  d’ignominia, per cui innalzo propositi di assenza. «Sono solitario come l’ultimo occhio / di un uomo in cammino verso la terra dei ciechi», così parlò Majak, nel secolo deforme.

Rivedo il Boka un mese prima di partire, a scoglionarsi nell’alba indecisa del vado – non vado, mentre un pomeriggio logoro avanzava stringendogli la gola come un cappio.

Io, invece, vado senza alcun tentennamento. Penso a lui e ai suoi fasti giordani, alle strade battute e ribattute da esausti dromedari, e a quella luna che si alzò nel deserto illuminando la piazza rossa. E vado, con la solita fermezza inquieta, attratto da un benessere unico e indivisibile.

Qui, adesso, è sera. Pratallalbero è ormai libero da ogni presenza umana, eccetto per un camper da dove spunta un baldanzoso trentino diretto a Matera con la moglie. «E tu? Dove vai?». «Nel bosco, a dormire in questo bivacco qua». Indico il punto sul pannello in legno. Mi guarda sorridendo complice, come una benedizione.  Salgo lungo il sentiero oltre la sbarra, l’inizio è ripido ma serve a tenere svegli i sensi mentre il bruzzico irrompe sulla mia via crucis. L’Appennino è silenzioso e sospeso nel suo stapperaccadere, si gongola un po’ giocando tra i raggi del sole morente. A valle le case si succedono come scalette sghembe sugli zigomi dei monti. Arrivato in cima il sentiero si appiana, scalo la collinetta che guarda il Mugello e mi sento trascinare verso il basso, come un risucchio infernale che mi attira a sé. Oltre il monastero Al Dayr, Bokassa provò un senso di dolore ancestrale, la forza di gravità unita al vento lo gettò in un vortice di azzardo soffocante, come se le rocce solcate dai millenni stessero per crollare sotto i suoi piedi, e la sua giacca verde stesse per divenire un inutile mantello funebre. La bandiera nazionale sventolava su quella immane bellezza senza voce.

E capì che ovunque lui sarebbe stato lì, sospeso sul niente. E capii che ovunque anch’io avrei provato quel vuoto ammaliante e disperato.

Cala il buio e accendo la lucina per vedere i segnali bianco e rosso, ma li perdo poco dopo, steccando il bivio per Casaglia e finendo davanti a tronchi d’albero tagliati e a una scavatrice addormentata. Torno indietro mentre scruto la luna che nell’azzurro acerbo dona il suo respiro alle faggete nere, le colora di un grigio vivo e chiazzato di bianco.

Tra il fogliame torme di cinghiali vicini e lontani si azzuffano e smusano e ronfano e scalciano fino a giocare con il mio terrore. Sbraito ed emetto suoni gutturali, batto le mani fingendo sicurezza mentre nascondo tutta la paura di un viaggio inedito. Stavolta azzecco il bivio e imbocco un sentierastro clandestino, nessuna indicazione ma il bosco si apre appena e mi rincuora. La radura è tagliata da un raggio di luna che la benedice, l’accarezza di un tocco fresco e cristallino. Al centro la capanna, la rustica casetta in legno rimessa a nuovo di recente dopo un brutto incendio.

Il letto a castello, la cucina economica, il tavolo con qualche candela, due scaffali pieni di roba, la legna da una parte. Pochi minuti e il fuoco divampa nella piccola stufa, accendo una candela, stappo il vino e inizio a mescere come a scaldarmi di grazia, nel lusso di una notte che è mia e soltanto mia. Sulle quattro assi unte di recenti bagordi un giornale con l’immagine di Bukowski mi fa venire in mente una vecchia poesia adolescenziale, quand’ero orgoglioso del mio barboneggiare.

«Me ne vado davvero. Parto per un lungo viaggio, finalmente. Lascio questo istante di vigliaccheria e codardia, questa serie ridicola di movimenti meccanici e privi di senso profondo…»
Gli occhi si infiammano, sono al centro del mondo. La salsiccia è cotta e lo stomaco gorgoglia mentre la porta cigola di brutto a ogni folata.

Briciole di pane ovunque, macchie di grasso sfrigolano soavi fragori sul focherello acceso. Infine giacciono sulla carta giustiziando amore e stelle, come richiesto dal vate della suburbia hooliwoodiana. Ebbene sì, avevo paura là fuori, lo giuro. Nessuno ammette mai di averne, tutti son pieni di boria e coraggio fino a farsi crepare di orgoglio come tanti aspiranti suicidi. Tutto pur di mascherarla, per dio, tutto pur di non macchiarsi d’incertezza e non dire «Io – ho – paura». Il disonore preannuncia l’inferno dei bassifondi e ognuno farà la guerra con l’altro pur di nascondere le proprie debolezze. Osservo la macchia di vino sul giornale, una buona metà si è già persa nei vicoli delle mie fibre muscolari, nel sangue, tra i nervi. In Giordania del vino neanche l’ombra, eh Bokassa?…solo in quei locali nascosti e tollerati dalla Polizia di Stato. Basta che stiano giù, là sotto, e che nessuno metta il naso fuori, nessuno!

Dalla Giordania all’Appennino, uno scantinato tutto per me. Nessun controllo, solo un po’ di sana inquietudine. La candela brucia e la cera si accascia lungo i fianchi producendo una seducente valanga che va a posarsi sui bordi della vecchia bottiglia. Gli occhi incrociati si posano ancora una volta sul giornale, sul volto del vecchio rimbambito, il poeta delle masse alcolizzate, il poeta delle citazioni facili e incomprese, il poeta della risata perfetta.

«È leggendo Céline che si consolidò il suo incondizionato rifiuto per ogni forma di lavoro regolamentato…». Così recita il pezzo, mentre la testa dondola come il cigolìo della porta socchiusa. Fuori il vento pulisce, sanifica il mondo dalle sue brutture. Anche quassù, dove tutto sembra perfetto, dove senti che non c’è corruzione di pensiero. Unico anello difettoso di questa catena estemporanea, me stesso, che porto in cuore il veleno della vita come la sua linfa. L’aria fresca trapassa le pareti in legno, penetra tra le fessure del bivacco per spazzare via i parassiti, i danni della ragione, il tradimento umano. «Non sarebbe dovuto accadere, invece è accaduto», mormoro distratto.

In Giordania il Boka cammino’ al tramonto nel deserto sconfinato, in mezzo a rossi speroni rocciosi. Il sole calava lentamente e il silenzio si faceva sempre più rumoroso. In cima a una collina sabbiosa spuntò un giovane pastore con le sue capre. Richiamava le sue bestie con gesti e suoni naturali, appartenenti a un codice antico e necessario. Non parlava inglese, unico nel suo genere, il solo uomo su quella terra a non avere contatto coi turisti. Sorrise timidamente, mostrando una gentilezza sincera. «Come stai?» Gli chiese in arabo, una delle poche frasi che sapeva. «Ana taben». La pronuncia sembrò dire questo, ma il Boka non ne fu mai davvero sicuro. Ana taben. Abbozzò un altro sorriso, poi aggiunse qualcosa ma vide la delusione negli occhi di Bokassa. L’incomprensione, la lontananza in tutto e per tutto, eppure erano così vicini. Il ragazzo lo fissò negli occhi, lui li abbassò d’improvviso come se fosse stato scoperto. Li rialzò poco dopo lacrimando sabbia e poi lo salutò, con la mano sul cuore. Il beduino rispose altrettanto mentre il silenzio ripuliva Wadi Rum. Non c’era tempo per parlare, non il modo, non la lingua, ma il Boka pensò fosse l’ennesima scusa. Sarebbe bastato un cenno, qualche gesto, e lui avrebbe capito. Invece rimase ancora e soltanto una speranza morta lì per lì, tra i granelli del deserto.

Incarto l’unica salsiccia rimasta, ripongo il pane avanzato nel cartoccio, sistemo una candela nuova in cima alla bottiglia e attendo paziente la piccola fiamma ardere nel buio. Le assi del letto sono dure, e il sacco a pelo mi protegge solo dall’ultimo freddo invernale. Gli occhi sono più quieti, il fuoco è come una ninna nanna, come una mano calda sulla guancia, come mia madre che mi segue dalla porta mentre parto ancora. «E’ l’ultimo scherzo che mi fai, nevvero?». Credo di sì. Ogni volta sarà l’ultima, promesso. Ana taben.

Nonostante il torpore che avanza penso ancora al Boka e al ragazzo nel deserto. Tempo fa ascoltai il racconto di una donna, parlava in un tedesco perfetto. Non capii un bel niente, ma capii più o meno tutto. Le Variazioni Goldberg, il movimento delle mani e due occhi luccicanti: «Ti ho raccontato la morte di mia madre» disse alla fine, con una voce tremula e dolce. Allora lo accettai come un regalo, stregato da quel fiume di parole grezze e sconosciute. Oggi l’ho portato su in montagna, ho riascoltato la delicatezza di quell’aspra lingua mentre imboccavo il sentiero errato, o mi perdevo nei primi raggi lunari. E ora qui, nell’ultimo occhio al centro della terra, rievoco una storia che non mi appartiene ma che ho fatto mia. La sento e la racconto mentre gli occhi si chiudono. Sono il più grande traditore mai vissuto sulla faccia della terra, respiro con affanno producendo vapori e immaginando di riempirli con volti e parole. Mi addormento sublimando un dramma, decorandolo dei gesti e degli ultimi atti d’amore. Niente è mio, e tutto può diventarlo. Tutto è dentro di me, e niente potrà mai esserlo davvero. Ana taben.

«Perchè te ne vai solo nel bosco?»

«Forse perchè penso che siamo soli e lo saremo tutta la vita. Ci vuole coraggio, no?»

«Non dirlo mai più, ti prego, siamo stanchi».

«Lo so, va bene, farò come volete. Mi mancano soltanto poche forze per guardarvi negli occhi. Poi – è una promessa – festeggeremo un’alba senza età, e finirà anche questa notte, saremo stupidi e santi e lo saremo insieme. E’ l’unica battaglia buona che ci sia».

Sono le 4.48, nessuna luce, tutto tace. Ore 6.10, sento belare tutt’attorno, e la porta è solo un volto assonnato su una folta capigliatura accesa. Bokassa si ridesta dal torpore, muove i primi passi del mattino, mentre un nomade sistema la kefiah bianca e rossa sulla testa. Apro la porta e la radura è ancora vuota, circondata da faggi e margherite.

Rimetto in ordine la legna e ne faccio di nuova, do una spazzata rapida al bivacco e mi appresto a ripartire.

«L’ho portato il 19/4. Bevetelo!». Lascio il biglietto sul tavolo, e un po’ di Bolgheri per i posteri, e i postumi che verranno. Torno sulla via per Casaglia, ma faccio dietro-front e riprendo i vecchi passi mentre un bramito non lontano mi raggiunge. Lo ascolto affascinato, come un canto rabbioso a rompere il silenzio. Sono esausto, per dio, e non ho più voglia di camminare solo. Le mie impronte sono quelle di un vecchio compagno di viaggio che andava…e andava soltanto. Il mattino è fresco e timido, la Via Crucis si è conclusa e ha lasciato una brezza di attesa.

Monto in macchina e in poco tempo sono di nuovo là, in mezzo a luccicanti colonne di marmo, putti sospesi e ombre cinesi. «Te lo avevo detto che sarei riapparso, forse una settimana, forse un giorno, o soltanto poche ore. Comunque, eccomi qua».

«Tornerai?» chiese un bambino al Boka, di fronte all’Arco di Jerash. Parlò in arabo, e fece gesti eloquenti con le braccia magre.

«Certo, il prossimo anno». Ma non sapeva dirlo, e così non disse niente.

 

 

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