Nel mondo delle corse, ogni tracciato ha un suo respiro. A Mandalika, quel respiro sa di vento umido, di folla in festa e di tensione che ti vibra sotto la pelle prima ancora che sotto le gomme. È qui che José Antonio Rueda ha scritto il suo nome tra i campioni del mondo, ma sarebbe riduttivo definirla soltanto “una vittoria”. Perché questo GP d’Indonesia è stato un racconto di coraggio, resilienza e incroci di destini.
Mentre il sole tropicale batteva sull’asfalto con la severità di un giudice, la Moto3 si preparava a vivere uno dei suoi atti più intensi. Non solo perché si assegnava il titolo mondiale, ma perché in palio c’era molto di più: la conferma per alcuni, il riscatto per altri, la speranza per chi sta ancora scalando la vetta.
Rueda e la leggerezza del campione: “essere pronti è tutto”
Shakespeare scriveva che “essere pronti è tutto”. José Antonio Rueda lo era. Anche se partiva dalla terza fila, anche se gli bastava poco per chiudere i giochi. Non ha corso per gestire, ha corso per affermarsi. Ed è questa la differenza tra chi si accontenta e chi lascia un segno.
La gara sembrava iniziare in salita per lui. Davanti, un Angel Piqueras agguerrito cercava di ribaltare la narrazione, balzando dalla 11ª alla 4ª posizione in un solo giro. Sembrava il preludio a un duello epico. Ma poi Rueda ha mostrato perché tutti lo chiamano “il professore” del gruppo. Ha studiato, atteso, colpito. Con un giro veloce chirurgico e una progressione da metronomo, si è preso la testa della corsa. Piqueras, nel frattempo, è scivolato indietro, inghiottito dal gruppo e forse dal peso delle aspettative. Finirà decimo, ma ciò che resta è l’immagine di un campione in costruzione che si è piegato di fronte a uno già fatto e finito.
Quando la direzione gara ha sventolato la bandiera rossa, dopo l’incidente che ha coinvolto Adrian Fernandez e costretto Munoz al centro medico, il destino era già stato scritto. Rueda, col sorriso appena accennato di chi sa che è solo l’inizio, ha alzato il braccio al cielo. Campione del mondo, sì. Ma soprattutto, uomo da corse vere.

Lunetta e Pini, l’Italia che rialza la testa
C’è un momento in ogni gara in cui il rumore del motore si fonde con qualcosa di più profondo. È il rumore della rinascita. Ed è quello che ha accompagnato Luca Lunetta, tornato al podio dopo l’inferno di Assen. Lì dove si era rotto — fisicamente e forse anche un po’ dentro — oggi ha mostrato di sapersi ricostruire. Il secondo posto è meritato, ma è l’approccio che conta: lucido, determinato, sempre presente nel gruppo di testa come chi sa quando è il momento di colpire.
E accanto a lui, il nostro Guido Pini. Primo podio mondiale, conquistato senza sconti. Partiva dietro, ma ha scalato posizioni con la fame di chi non ha niente da perdere. Terz’ultimo giro da manuale, il più veloce di tutti, e poi la pazienza necessaria per approfittare degli errori altrui. Il long lap penalty a Fernandez è stato il dettaglio che ha cambiato la storia, ma senza la costanza di Pini, non sarebbe bastato. Un grande !
Sul podio, l’abbraccio tra i due è stato più eloquente di qualsiasi cronaca. “Siamo cresciuti insieme”, ha detto Lunetta. E c’era qualcosa di commovente in quelle parole, come se in un solo istante tutta la fatica, i test, le cadute e le attese si fossero sciolti in una gioia condivisa.
Il caos finale e i colpi di scena
La gara, però, è stata tutt’altro che lineare. Il contatto tra Almansa, Furusato e Carpe ha sparigliato le carte. La confusione ha aperto varchi, rimescolato le posizioni, mandato in tilt le strategie. A Mandalika, come nella vita, è spesso il caos a determinare i destini.
La direzione gara ha avuto il suo bel da fare. Penalità a raffica, cadute violente, decisioni in tempo reale. E quando Fernandez ha tentato un sorpasso disperato su Munoz, causando l’incidente che ha chiuso tutto, è sembrato il simbolo perfetto di una gara che non ha mai trovato un equilibrio. Proprio come spesso accade quando la posta in palio è troppo alta.
Oltre il podio: gli italiani e il futuro
Alle spalle del podio, Roulstone ha chiuso quinto, mentre Stefano Nepa ha raccolto un onesto nono posto. Più indietro, Dennis Foggia e Riccardo Rossi, ancora alla ricerca di quel guizzo che possa restituire significato a una stagione opaca.
Ma la vera notizia è che l’Italia c’è. Lunetta, Pini, e una generazione che inizia a crederci. A Mandalika non è solo salito un campione sul trono, ma si è acceso un seme di speranza. E quando la Moto3 parla anche la lingua dell’Appennino, qualcosa nel cuore degli appassionati si muove.
Il futuro? Ha già il volto di Rueda. Ma non solo.
Con il titolo ormai assegnato, le ultime gare saranno un palcoscenico per chi vuole mettersi in mostra. Rueda guarda già oltre, verso Moto2, forse. Lunetta e Pini verso la consapevolezza. E noi, spettatori di questo teatro ad alta velocità, non possiamo far altro che attendere il prossimo atto.
Perché come scriveva Gianni Clerici parlando di tennis, ma vale anche per le moto:
“Lo sport è l’unico spettacolo dove, anche se conosci il finale, vale sempre la pena guardarlo.”
E Mandalika, oggi, ci ha ricordato il perché.
