Olivetti e l’impresa come bene comune

Olivetti e l’impresa come bene comune


Luigino Bruni
mercoledì 26 febbraio 2020
Avvenire
A 60 anni dalla morte dell’imprenditore umanista l’eredità della sua profezia sulla «Città dell’uomo». Un programma sociale, per visione, bellezza e armonia, ancora da realizzare
Adriano Olivetti parla con gli operai nella fabbrica di Ivrea / Publifoto

Città dell’uomo, pubblicata nel 1960, è il testamento etico ed economico di Adriano Olivetti, morto il 27 febbraio di quello stesso anno. Lì vi leggiamo una delle sue frasi più note perché più belle: «La civiltà occidentale si trova oggi nel mezzo di un lungo e profondo travaglio, alla sua scelta definitiva. Giacché le straordinarie forze materiali che la scienza e la tecnica moderna hanno posto a disposizione dell’uomo possono essere consegnate ai nostri figli, per la loro liberazione, soltanto in un ordine sostanzialmente nuovo, sottomesso ad autentiche forze spirituali le quali rimangono eterne nel tempo ed immutabili nello spazio da Platone a Gesù: l’amore, la verità, la giustizia, la bellezza». Rileggendo oggi queste parole ci dobbiamo chiedere che uso ha fatto, in questi sessant’anni, il capitalismo delle sue “straordinarie forze materiali”’. Se l’economia ha contribuito alla “liberazione” dei figli della generazione di Adriano (cioè noi), se quell’ordine “’sostanzialmente nuovo, sottomesso ad autentiche forze spirituali” si è realizzato. Se “l’amore, la verità, la giustizia e la bellezza” sono aumentate o no nel mondo capitalista.

Domande non semplici, perché in alcuni ambiti l’economia di questi sessant’anni ha effettivamente liberato molte donne, uomini, bambini. Ha dato da mangiare al doppio degli abitanti che la terra aveva negli anni Sessanta, ha allungato l’aspettativa media di vita di un paio di decenni, ha aumentato in media comfort e benessere materiali, per molti, anche se non per tutti. Ci sono però dei “luoghi” dove il capitalismo sta mostrando, proprio ora, il suo fallimento, la sua incapacità di orientare al bene comune le sue “straordinarie forze materiali” Questi luoghi sono i beni comuni, i beni relazionali e la terra, dove la logica economica che abbiamo coltivato e potenziato in questi decenni non sa custodire questi speciali beni, e ogni giorno li distrugge un po’ di più. Nei rapporti umani, nella cura dei beni che usiamo assieme (commons), e nei rapporti con l’ambiente naturale, il capitalismo non ha mantenuto le sue promesse.

E questi “luoghi” erano proprio i beni che più stavano a cuore ad Adriano Olivelli. Il rapporto tra fabbrica e terra, tra l’operaio e il contadino (che nella gente di Ivrea coincidevano) era fondamentale nell’umanesimo economico di Adriano. Avendo fatto da giovane l’esperienza della fabbrica fordista–taylorista americana, non si diede pace finché l’ambiente artificiale riprodotto dentro i suoi capannoni non fosse troppo separato e distante da quello naturale della vita e dei campi: anche per questo fece edifici con grandi vetrate (”la fabbrica di vetro”) che davano verso la campagna, per ridurre quel confine invisibile tra lavoro e vita che tanto alienava (e aliena) i lavoratori. I beni relazionali che interessavano a Olivetti non erano soltanto quelli che i suoi operai e impiegati coltivavano al di fuori della fabbrica; anche, ma di più gli interessava la qualità dei rapporti che si compieva dentro la fabbrica. Uno dei segreti dello straordinario (qui l’aggettivo ci vuole tutto) successo, anche economico, della Olivetti di Ivrea nei due decenni dopo la seconda guerra mondiale, era anche la qualità dei rapporti interni l’azienda.

Decine di migliaia di lavoratori, gestiti da una classe dirigente con una cultura e con strumenti innovativi e diversi da quelli che si stavano affermando in quegli anni negli Usa e che oggi imperversano indisturbati in tutto il mondo. Era convinto che una fabbrica di Ivrea dovesse sviluppare una cultura della direzione diversa da quelle che nascevano dalla business school anglosassoni. Il genius loci piemontese doveva incarnarsi e vedersi anche e soprattutto nella gestione delle persone: che lui non chiamava risorse umane ma personale, una bella parola che rimanda a persona, una grande eredità dell’umanesimo classico europeo e cristiano. Così, a pochi anni dalla sua morte, l’economista anconetano Giorgio Fuà, anche lui di origine ebrea, volle dedicare ad Adriano Olivetti una innovativa scuola d’impresa (Istao).

Ed è proprio la qualità delle relazioni all’interno delle imprese una delle sfide perse dal nostro capitalismo. Esiste ormai una vera e propria malattia del management, soprattutto nelle grandi imprese, sempre più imprigionate dentro strumenti di gestione da loro stesse voluti e implementati, che stanno allontanando sempre più i lavoratori dai dirigenti. L’utopia della tecnica sta invadendo le organizzazioni, e con essi l’illusione che si possano gestire le persone senza “toccarle”, grazie alla mediazione degli strumenti di gestione. C’è molta sofferenza relazionale dentro le imprese, ma abbiamo perso, lavoratori e dirigenti, le categorie etiche per vederla tantomeno meno per capirla. Per Olivetti il primo bene comune era l’impresa stessa. E quindi, come per tutti i beni comuni, l’impresa è sottoposta alla distruzione se viene attivata dalle sue persone la loro logica individualistica, come ci ha insegnato Hardin con la sua Tragedia dei beni comuni (nel 1967).

Anche le imprese, come i pascoli di montagna, vengono distrutte se ciascuno pensa a sfamare la propria mucca e si dimentica dell’erba comune. Il collasso relazionale delle imprese potrà essere una delle carestie di questo nuovo millennio. E infine la bellezza, la quarta parola della “profezia” concreta di Olivetti. La bellezza non era qualcosa di romantico o che riguardava solo l’apparenza. Per lui la prima bellezza era quella dei capannoni, degli uffici, delle case, dei quartieri, la bellezza laica e semplice della fabbrica. Fu uno dei precursori dell’Italian style della nostra economia, e lo fu producendo macchine da scrivere, oggetti semplici, sobri, essenziali, ma che sanno dire una bellezza diversa, quella del lavoro: una M20 non dice meno bellezza di un quadro o di una scultura. Era la bellezza che aveva imparato nel lavoro di suo padre, nella tradizione ebraico–valdese della sua famiglia.

La bellezza del lavoro ben fatto, la bellezza dell’azione collettiva, che fanno delle fabbriche e delle imprese luoghi splendidi perché dentro, ogni giorno, siamo capaci di generare, insieme, cose nuove, beni che arricchiscono la biodiversità della terra. Perché se è bella “la città di Dio”, nell’umanesimo biblico e cristiano “la città dell’uomo” lo è forse di più. Il grande messaggio di Olivetti che arriva all’economia del nostro tempo è dunque un messaggio di speranza. L’economia è cosa buona. I luoghi dell’economia sono luoghi di umanità piena, persino di amore. L’Olivetti dopo Adriano Olivetti non ha continuato la sua profezia, non ha sviluppato la sua utopia concreta. Non poteva farlo, perché Adriano Olivetti era molto più grande della sua fabbrica.

È questo il destino di tutti i profeti, anche di quelli laici ed “economici” di oggi. Lasciano sempre delle incompiute, perché portano via con sé la parte più preziosa del loro talento. Ma ci lasciano le loro domande e le loro promesse, perché, in un altro luogo e in un altro tempo, qualcun altro possa continuare la loro stessa corsa: «Se le forze materiali – scriveva nella Città dell’uomo – si sottrarranno agli impulsi spirituali, se l’economia, la tecnica, la macchina prevarranno sull’uomo nella loro inesauribile logica meccanica, l’economia, la tecnica, la macchina non serviranno che a congegnare ordigni di distruzione e di disordine».

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