Ivan Ferraro – Bokassa non paga!

Ivan Ferraro inizia la collaborazione con il sito di Radio Mugello con questa rubrica in cui parlerà di incontri viaggi e proporrà racconti inventati. Buona Lettura.

Rubrica

Ivan Ferraro

BOKASSA NON PAGA!

Cronache a caso

INTRO

In questo momento storico il Boka è uno sciancato dalla stazza imponente, il capello nero e unto, alto almeno un metro e ottanta e sulla cinquantina portati di brutto, ma con stile. Ma quello che è diventato non mi interessa granchè (anche se parla male, ed è buffo da far schifo). Allora, diverso tempo fa, aveva trentatrè anni come il nazareno, il fisico asciutto e muscoloso, la rapa-rivolta come i punk dei ’70 e sopra un ridicolo cappello di lana cotta rimediato da un vecchio giaccone militare. Girellava da solo tra i locali di Firenze come in un safari cittadino, gorgogliando le sue imprecazioni inutili contro il destino o dio che lo avevano mandato quaggiù a farsi fottere allegramente. In realtà era ben grato del fatto che qualcuno, nell’attimo della bestemmia, lo stesse davvero ascoltando in quella solitudine orgogliosa, in quello show unico e irripetibile che nessun altro, nessuno mai, avrebbe messo in scena come lui. Si addentrava nelle stanze accecanti, sbrelluccicanti di etanolo e cocaina, appoggiava i gomiti sui banconi umidi, pronto a partire. Chiedeva, sbraitava quella frase che sa tanto di film americano in salsa animalesca, mangiandosi consonanti e doppiandone altre:  «Issolito, peppiacere». E già il peppiacere rappresentava uno sforzo immane, in quel succedersi di sillabe abbarbicate alla buona educazione, a quel minimo essenziale insegnatogli quand’era uno scricciolo insignificante e portava i pantaloni corti e i sandali coi quattro buchi. Il giovane barista, chiaramente, non capiva mai cosa volesse e ciò rendeva quel film un autentico fallimento. Non era un infelice, gli andava bene così (e così pare), gli bastava compiere quei due-tre gesti di egocenstrismo sfrenato sufficienti ad attirare l’attenzione degli spettatori circostanti. Quei dieci minuti, o venti, o trenta che fossero, gli permettevano di andare avanti, di svoltarla ancora una volta, per così dire. Si sentiva una bestia, e trangugiava e inghiottiva e tirava giù in gola il possibile per assicurarsi l’ultimo spazio di vita rimastogli, la romba finale, il gioco dei saluti. L’educazione svaniva in barbarismi colorati, in balbettii allucinati e quasi comici, se solo ci fosse stato un pubblico empatico e comprensivo.

Il Boka non dava il preavviso: ammattiva così, all’improvviso, e non lasciava il tempo al barista di turno, colto di sorpresa in quell’attimo di rabbia impervia trasformata in atto artistico, di prepararsi al delirio. I suoi occhi infiammavano e scintillavano ai neon blu del locale, bruciavano come due fuochi accesi, scoppiavano come bombe in un’apocalisse di fulmini e giullari, roteavano in maniera irregolare, a ritmi anarchici come il vento che soffia e cambia verso e rallenta, cade e s’infuria. Sembrava convinto di trovare Dio, come i danzatori sufi in quel gesto perpetuo di adorazione e libertà. Stringeva il bicchiere di Bombay (il terzo, il solito) fino a sentire il vetro che cedeva, allentando la presa poco prima della distruzione, com’era consuetudine. Poi lo batteva dieci volte sul bancone, dieci ripetuti tocchi di fondo sempre più forti, sempre più irosi: era quasi un rito tribale, un viaggio andata e ritorno nell’aldilà, un grido di battaglia. Poi si alzava, batteva i pugni sul petto come King Kong offrendosi alla folla frastornata, montando sui tavolini e ricadendo subito a terra con un tonfo sordo. E più e più volte e ancora giù! Fino allo sfinimento, al disperato cedere affannato. Nessun dolore particolare, solo il ritorno alla realtà dopo quei minuti di frastuono mentale e di caos cellulare. Si rialzava per l’ennesima e ultima volta, mirando la porta di fretta e furia, e sulla soglia – il volto carico di fuoco e di odio: egli sapeva cosa fare e come farlo – la pronunciava ogni volta: lei, la santissima e irripetibile, con tono grattato ma di quelli che non si discute, e tu che guardi male non avrai un cazzo da dire; col viso sudato lercio, i capelli arruffati, gli occhi ammattiti, gridava fiero: «Bokassa non paga!». Lo faceva così, con nonchalance, come se fosse la frase più naturale e comprensibile del mondo. «Bokassa non paga, gente», ripeteva deciso, decorandosela di una superiorità improbabile, per la miseria. Lo schifo che faceva, pieno di fragile boria ammassata come a caso, buttata lì a coprire la voglia di sbattersi e finirsi una volta per sempre…

Puntualmente, come se fosse ancora più scontato, un energumeno post-africano lo agguantava in tre due uno, pigliandolo per un braccio e vanificando ogni tentativo di fuga eroica. «Lo show è terminato siore e siori!» Echeggiava l’annuncio nell’aria. E Bokassa, puntualmente, pagava.

 

Questa misera storiella da quattro soldi è l’intro disperato di una musica che si farà. Qualcosa che  potrebbe essere il nulla cosmico, o al massimo un’accozzaglia di paroline messe insieme a formare due tre discorsi, o un racconto, o la cronaca di un viaggio. Quel che è certo è che l’Anti-gagarin è morto, soffocato da un tempo che non gli appartiene più. L’anti-cosmo in cui militava gli ha mangiato gli anni, se lo è rigirato ben bene, fino a scaraventarlo in una dimensione che non è spazio cosmico nè buco del culo: una dimensione che è tutta da cercare. Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente, diceva Mao Tse-Tung. Ebbene, si eccelle dopo un anno di dolce letargo o frenetico sonno. Si fa lo show della vita, come il Boka a cui dedico questa nuova rubrica: lui che sapeva – se mai sia esistito come l’ho descritto – di doversi lanciare in un atto di esibizionismo allo stato puro, il canto del cigno prima della disfatta mondiale, il crollo psicologico, l’ultima crisi economica. Perchè il conto arriva sempre e non si scappa, per dio: «Il faut payer», disse L.-F. Céline in una nota intervista. «Il faut payer». E allora se c’è da pagare, tanto vale giocarsi tutto qui, adesso, con quattro verbi messi in croce. Se poi orgogliosamente lo nego (il conto) come ha fatto il Boka, è solo per quella fottuta boria che mi tiene in vita.

La realtà è già alle calcagna e c’ha manie di distruzione. Io mi difendo impettito o almeno mi do un tono, sia ridicolo o bizzarro. Poco importa ché lo stile è tutto, e ‘sta rubrica a caso sarà un po’ tragica un po’ comica, talvolta tragicomica. Forse ipocrita e incoerente come i nostri tempi. Di certo, vera. Amen.

 

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