Una storia che ha sconvolto le nostre comunità per anni e che ancora oggi pone tantissimi interrogativi su chi fosse l’esecutore materiale e il mandate delle atrocità perpretate su tante povere vittime. “Il Mostro”, la nuova serie firmata Stefano Sollima è da oggi su Netflix una serie che piacerà più ai critici che al grande pubblico. Il debutto al Festival di Venezia ha già fornito i primi segnali: recensioni prevalentemente positive, ma non sono mancate le stroncature. Il pubblico, invece, potrebbe rimanere spiazzato, almeno all’inizio.
Perché “Il Mostro” è una serie che non concede nulla allo spettatore pigro. La prima puntata è ostica: ritmi lenti, alternanza di piani temporali che confonde, un impianto narrativo che sembra disordinato e una colonna sonora disturbante più che coinvolgente. A ciò si aggiunge l’assenza di volti noti tra gli attori – comunque capaci e credibili – e, soprattutto, la totale rimozione dei personaggi simbolo delle cronache giudiziarie legate al Mostro di Firenze, da Pacciani a Vanni, passando per gli altri protagonisti del filone più noto dell’indagine.
Eppure, chi non si lascia scoraggiare, viene premiato.
Una narrazione che cresce, puntata dopo puntata
La seconda e, soprattutto, la terza puntata segnano una svolta. Il ritmo resta lento e l’alternanza temporale persiste, ma la prospettiva cambia. A ogni episodio, emerge una nuova versione dei fatti, un nuovo colpevole possibile, un nuovo “mostro”. Il punto di vista si moltiplica e lo spettatore viene gradualmente risucchiato nella rete costruita da Sollima. Quello che inizialmente appariva come un limite – l’indugiare su dettagli, atmosfere, silenzi – diventa il vero motore emotivo della serie.
La tensione cresce lentamente, come in una spirale, mentre la narrazione si addentra nella storia di una famiglia sarda trapiantata nel Chianti, tra segreti, ambiguità e legami familiari corrosi dal sospetto. È qui che il racconto trova la sua forza: nel ritratto di un mondo antico e malato, più che nel semplice resoconto dei delitti.
Un thriller atipico, lontano dai canoni del crime moderno
“Il Mostro” non ha nulla a che vedere con le serie crime spettacolari a cui siamo abituati. Non ci sono inseguimenti, cliffhanger a effetto o scene d’azione mozzafiato. Nonostante alla regia ci sia Stefano Sollima, noto per opere come Gomorra, Romanzo Criminale e Suburra, qui l’approccio è radicalmente diverso.
Niente adrenalina gratuita, poca morbosità (sebbene sangue e sesso non manchino), e soprattutto un tono asciutto e documentaristico. Le ricostruzioni degli omicidi sono fredde, chirurgiche, come in una perizia legale. I personaggi non sono scolpiti psicologicamente: il loro ruolo è veicolare il punto di vista mutevole e ambiguo dell’inchiesta.
La pista sarda e l’origine di tutto
La scelta narrativa è chiara: concentrarsi sull’inizio dell’inchiesta, quando l’attenzione degli investigatori si era rivolta a un gruppo di sardi trapiantati in Toscana. I protagonisti di questa parte della storia sono Stefano Mele, Giovanni Mele, Francesco Vinci e Salvatore Vinci. L’indagine parte da un omicidio del 1968, apparentemente isolato, ma collegato agli altri delitti solo per un dettaglio inquietante: l’arma del delitto, una Beretta calibro 22 con proiettili della famigerata serie H, la stessa usata in tutti gli altri otto omicidi avvenuti tra il 1968 e il 1985.
È un tuffo in un’Italia lontana, un mondo rurale dominato da leggi patriarcali, da una violenza domestica sistemica e tollerata, e da una sessualità repressa e deviata. Un contesto in cui si uniscono tradizioni arcaiche, moralismi ipocriti e rapporti familiari malati.
Un’indagine che riflette l’Italia
Dietro alla regia di Sollima, c’è il lavoro minuzioso di Leonardo Fasoli e la consulenza storica di Francesco Cappelletti, che hanno garantito un’aderenza puntuale alle carte processuali e ai dettagli dell’inchiesta. Ma più che una ricostruzione giudiziaria, la serie diventa una radiografia dell’Italia degli anni Settanta e Ottanta, con le sue paure, i suoi silenzi e le sue contraddizioni.
L’indagine stessa, come viene mostrata, è un dedalo senza uscita: errori investigativi, pressioni mediatiche, depistaggi e piste infondate si accumulano, lasciando lo spettatore disorientato. Esattamente come i magistrati dell’epoca.
Il punto di vista del mostro
Una delle scelte più forti della serie è quella di mettere lo spettatore nei panni dell’assassino. Non ci viene mostrato chi è, né perché uccide. Ma vediamo il mondo dal suo punto di vista, freddo, distaccato, impersonale. Le vittime non vengono approfondite: sono figure fugaci, sconosciute anche al killer. Appartate nei campi, colpite senza preavviso.
Alla fine, come nei verbali e nelle sentenze, resta il dubbio. Qual è la verità? Cosa è reale, cosa è solo un’ipotesi mal costruita? Il confine tra verità e costruzione narrativa si fa sempre più labile.
E infine, Pacciani
Le quattro puntate si chiudono con Salvatore Vinci che scompare nel nulla. E con lui, cessano anche gli omicidi. Una coincidenza? Forse. Ma Sollima non offre risposte: lascia solo indizi, suggestioni. Solo pochi secondi sono dedicati alla figura di Pietro Pacciani, che diventerà centrale nelle inchieste successive. Un personaggio chiave, su cui ancora oggi pendono dubbi e teorie contrapposte.
È probabile che, se la serie avrà successo, ci sarà una seconda stagione dedicata proprio a Pacciani, Vanni e Lotti, e a tutto ciò che l’opinione pubblica ha assimilato come “il Mostro di Firenze”. Ma finora, Sollima e Fasoli hanno scelto di non sposare nessuna tesi, mantenendo una posizione autoriale e sospesa.
Un mostro dentro di noi?
“Il Mostro” arriva nel 40º anniversario dell’ultimo omicidio. Un periodo in cui libri, podcast e ricostruzioni pullulano, ognuno con una propria verità da sostenere. Ma la serie Netflix sceglie un’altra strada: disorientare, più che spiegare. Moltiplicare i sospetti. E suggerire, forse, che il mostro non è uno solo, ma può annidarsi in chiunque. Anche in chi guarda.
Un’opera che lascia il segno, pur senza urlare. Perché il vero orrore, a volte, è silenzioso. E sta nei dettagli.

