Scapigliatura esistenziale
È la Firenze bifronte, solenne e popolare, intimidatoria e scapigliata, in cui va a zonzo un giovane di Marradi, massiccio e inelegante di corporatura, bizzarro nel comportamento, incapace di stasi e sistemazione e pure desideroso di comporsi in un ruolo, di essere accettato e inserito. È Dino Campana, circa tre anni prima – siamo nel 1911 – che i suoi Canti Orfici vedano la luce in una sgangherata edizione a proprie spese.
Sapevamo da tempo del poeta «maledetto» che nel 1913 affida il proprio manoscritto al pittore e poeta Ardengo Soffici, che lo chiede più volte indietro inutilmente, e che lo riscrive furiosamente a memoria, peraltro assai migliorandolo, e lo fa stampare grazie all’aiuto di amici e parenti, cercando poi di smerciarlo nei caffè e di promuoverlo sui rumorosi fogli del tempo. Così come sapevamo della sempre più accentuata fragilità psichica di Campana, del suo rapporto difficile con Sibilla Aleramo (1916) e del suo internamento nell’ospedale di Castel Pulci, dove morirà folle nel 1932.
Quello che non sapevamo, tuttavia, è che durante il 1911, uno degli anni più confusi e meno ricostruibili della sua tormentata biografia, Campana – esponente di una «scapigliatura» molto più esistenziale che estetica – cercò di trovare un posto retribuito, un ancoraggio istituzionale, trasformando una delle abilità conseguite in anni di vagabondaggi geografici e libreschi in un ruolo riconosciuto.
Ora, nell’agile volume intitolato Il poeta sotto esame (Passigli, pp. 112, euro 16,50), Paolo Maccari testimonia di una eccezionale scoperta letteraria: i due temi svolti con cui il rissoso e geniale Campana sostenne l’esame per diventare insegnante di lingua francese davanti a una commissione composta da cinque apostoli dell’erudizione e della correttezza normativa.
Un voto catastrofico
Da un faldone zeppo di documenti alloggiato nella Biblioteca dell’attuale Facoltà di Lettere di Firenze, sono emersi gli atti di un concorso di un secolo fa, i temi estratti, le valutazioni. Campana è uno degli otto candidati, quattro sono le prove: il tema d’italiano ottiene 35 punti su 50, quello di francese scende a 25, la dettatura incorre in un catastrofico 14 e un nuovo mediocrissimo 25 sanziona la prova di traduzione. Il problema, chiosa Maccari nel saggio che introduce i due temi ritrovati, è che il francese Campana non lo sa abbastanza bene. L’ortografia non è il suo forte: essere un lettore vorace e acutissimo, avere una pronta presa sugli armonici e sui segreti di una lingua non è sufficiente, e il posto d’insegnante, che avrebbe pacificato il poeta con la propria famiglia e con sé stesso, andrà come prevedibile a tutt’altro candidato.
Resta però il dato biografico, il tentativo di un ordine e di una disciplina esterni in grado di contenere il caos interno; ma ancor più, ci restano due scritti inediti di uno dei più grandi poeti del Novecento italiano, giocati dall’autore sul difficile equilibrio fra la loro destinazione istituzionale e l’incoercibile personalità che li declina e quasi, a volte, li inalbera.
L’angelo dei concorsi
Scrive Maccari, infatti, che «Campana non fa quasi niente per nascondere la sua identità interiore, che nonostante tutto si rivela diversa da quella di uno studente, di un candidato, di un aspirante insegnante. Divisa tra masochismo e orgoglio, è già, irresistibilmente, la personalità di un poeta».
Quella dualità della Firenze primonovecentesca, infatti, lo stretto rapporto di «adesione o di opposizione tra vecchi e giovani, tra cattedratici e fauves» agisce anche dentro l’animo dello stesso Campana, immerso in un paesaggio maestoso di architetture e di memorie e insieme preso nel vortice insoddisfatto di un vitalismo nietzscheano.
Anche nei due temi d’esame, il futuro poeta orfico cerca di tenere insieme i due poli dialettici apparentemente inaccostabili. Il titolo del primo è A zonzo per Firenze: e Maccari commenta divertito che se fosse esistito un «angelo dei concorsi» non avrebbe potuto favorire il proprio avventizio e indigente adepto meglio che con un titolo così congeniale.
Analisi del pentimento
Campana è un Ulisse che rivendica la saggezza superiore del grande viaggiatore, così da riconoscere il fascino della bellezza tradizionale senza però farsene imbrigliare; anzi, riesce a estrarre dalla ordinata cortina delle facciate monumentali la vivacità popolare della vita cittadina, narrando fra l’altro di un’assai sintomatica visita nella chiesa di S. Trinita, in cui le «mosse secche, meccaniche» di un «magro frate francese» sembrano contraddire dolorosamente ogni promessa di contemplazione e di pace.
Il secondo tema propone un argomento insidioso, Le repentir, il pentimento. E lì, nel francese occasionalmente zoppicante che lo condannerà alla bocciatura, Campana dichiara il proprio distacco dagli «eroi gemebondi del romanticismo», poiché senza mezzi termini per lui «approfondire il pentimento è assai triste». E la successiva, breve ma straordinaria, rassegna di poeti francesi dell’Ottocento conferma che «invece di tormentarsi il cuore» conviene all’artista «la fede nella creazione, la sola che spiega la vita».
Da una parte, allora, si dispongono il conclamato spessore storico di Firenze e la grammatica francese, peraltro da impiegare attentamente nell’autoanalisi mortificante del pentimento; dall’altra invece la dispersa eventualità dell’andare a zonzo, di toccare l’incontro e l’imprevisto, e nel tema francese l’opportunità di smarcarsi da una morale troppo onerosa e paralizzante per essere davvero compiuta.
Maccari è bravo nel ricondurre entrambe queste polarità ai luoghi maggiori dei Canti Orfici, mostrandone l’onda lunga, la radice, la necessità.Ma la stessa dialettica, più sottilmente, è nello stesso Maccari: e questo rende ancora più prezioso il suo libro. Autore giovane ma già tra i più forti della nuova poesia italiana, di quella che con le parole che attribuisce a Campana «innova non mediante la rottura con il passato bensì attraverso la sua rigenerazione», Maccari possiede una scrittura critica simpatetica ma esatta, brillante ma affidabile.
Anche in lui, forse, si compone la capacità di indagine e l’intelligenza del passato, lo studio appassionato e cospicuo dell’altro da sé e il viaggio attraverso i paesaggi semi-diruti dell’immaginazione contemporanea. Cosicché, nella più fulgida onestà dello studioso appare in controluce un arduo autoritratto di poeta e un orizzonte di possibilità, insieme monito a sé stesso e alla cultura italiana di oggi.