Bokassa non paga – Sardinia

Torna la nostra rubrica di Ivan Ferraro che oggi utilizziamo anche come nostro racconto di Natale

Bokassa non paga

SARDINIA

parte prima

《Respira forte quando arrivi. Respirate ché quello é un gran popolo, vedrai…》. Ma che ne so io, per davvero. Mica son mai andato matto per i popoli, siano essi d’oltremare o d’oltralpe o di là dalla Sieve. 《Bel modo che hai di viaggiare, sì…》, quella voce bastarda riecheggia dagli anni della Scozia, quando già mi bastava il silenzio di Neist Point, una pinta schiumosa e la luce cupa del primo mattino. Pure Livorno col suo porto annerito risucchia ogni aspirazione filantropica, inghiotte l’auto nella darsena appena lucente, addossata sulla ferrovia logora che sa di fine. Adoro i porti, il gioco di luci nella sera, le navi spumeggianti di fumo, gli operai coi gilet gialli e arancioni. Un’ora e mezzo prima dell’imbarco Leone parcheggia la sua Clio blu, inizia l’attesa roboante di aerei che sorvolano le nostre teste, di camion che giungono alla non destinazione, di catene che strascicano metallo e producono scintille come stelle improvvisate. Pieno dicembre, è quasi a Natale. 《Ma dove vai? Proprio a Natale…》, chiedeva mammà. Mica è facile rispondere, mica tutto ha un significato chiaro e distinto alla Cartesio. Si va…si va così, presi dalla solita smania… Olbia non è poi così lontana, e poi torno presto, perdìo, aiutami a dir presto.
Nottata insonne, la nave é una culla insonne, il mare una terra insonne, il cielo un soffitto insonne. Insonne come il pensiero che non cessa di una virgola e pare una musica d’orchestra pomposa e riluttante. Il sedere mi fa male e pure i fianchi, se mi metto di lato. “Nessun dorma”, cantava il Principe Ignoto. All’alba vincerò sicuramente ma, fino ad allora, non resta altro che alzarsi al ritmo russante del piccolo Leone crollato di sonno. Lui sì che l’ha sfangata e dorme come un Gesù bambino. Io invece m’agito come un Giuda, girello e guardo la gente avvolta nei sacchi a pelo che russa, pure quella. Russano gli uomini, le donne, i vecchi e persino i bambini! Mica bastava poco prima la leggenda del pianista sul Tirreno, col capello unto tirato indietro, la voce impastata e quelle tre canzonette storpiate, né l’ex impiegato pubblico in pensione che 《non ci capisco niente di politica ma alle ultime elezioni ho votato contro il sistema e…》eccheccazzo non parlare, taci! Tacete tutti, una buona volta!

Il ponte, vado sul ponte, esco fuori ma una voce roca e minacciosa osserva che il meteo è avverso, che il mare è a puttane e che devo rientrare appena subito. Prendo tempo, vado a pisciare ma guadagno solo tre minuti scarsi e sono ancora le 1.30 della notte. Niente da fare, resto unico e solo su una specie di nave fantasma. Il sonno non arriva e si fan le 3 poi le 4 e così via fino alle 6 quando mi risistemo in piedi e parto per la sala d’attesa. Un saluto biascicato a Leone che fa un inutile cenno di assenso ad occhi chiusi. Mi addormento alla fine, prima dello sbarco, come quando andavo all’università e solo a Campo Marte crollavo come un sasso. Ma c’è fermento in nave: una donna perde i sensi, il cassiere è una merda, due cani abbaiano, la cameriera non ha il collo e non capisco quando parla, Leonardo spunta dal nulla e dice 《Al ponte 3!》. Si scende. Respiro forte, come mi hanno detto. Il cielo ha un colore rossastro e le colline olbiesi danno il benvenuto. Insieme ad esse un caro finanziere ci dà il benvenuto chiedendo di tirar fuori, nel caso le avessimo, tutte le sostanze stupefacenti introdotte sull’isola dal continente. 《Dove andate?》. 《Boh…mah…non lo sappiamo ancora…》. Ma come no, cazzo, Leone. A Platamona, andiamo a Platamona, o a Porto Torres. Digli Porto Torres, no?! 《Ne avete di droga, sì o no? Ve lo chiedo perché se dite no e noi poi facciamo il controllo son problemi vostri 》.  《Mh, bah, che, giù…》. Leone… 《No, non abbiamo sostanze stupefacenti, signore》. Gioco di sguardi, studio, stanchezza. 《Fuori dai coglioni》.

Andare nel panico senza ragione e alle 7 del mattino. La colazione è la risposta sacrosanta e Olbia ce la offre sul tavolino di un bar appena aperto. Il ragazzo avrà più o meno la nostra età, è simpatico, ha voglia di chiacchierare. Ride quando parliamo in toscano: 《Buffi ssiette, io a Firrenze cissono statto, ma in Toscanna propprio mai, aiò》. Ci parla del suo bar, vorrebbe venir via sotto sotto, a fare una zingarata, giusto una giornata, una soltanto. Il suo parlare è cadenzato e duro come il marmo, le sillabe belle sostenute come il buon sardo comanda. Adesso è lui il principale, 《tant’è ch’hanno svegliatto mme lannotte della rappina. Tutta lannotte mi han tennutto in casserma checcazzo il laddro cheppoi l’han preso è uscitto primma di mme》. La prima colazione isolana si esaurisce così, in un bar semi-vuoto. Salutiamo il nostro amico olbiese e ci facciamo una girata per le vie della cittadina portuale. È sabato mattina, gli uffici sono chiusi e le case dormicchiano. Alle pareti improbabili manifesti di Scientology sul funzionamento della mente umana, i concerti di fine anno, gli annunci funebri. Arriviamo nel quartiere di Santa Rughe (Santa Croce): il piazzale silenzioso ospita una vecchia auto rossa, un paio di olivi, la chiesa di San Paolo con la sua cupola policromatica. Prima chiesa e prima sosta ché quasi mi ci addormenterei vista la notte infame. Ma il tempo vola e di Gesù bambini in quest’isola di vecchia data ne vedremo ancora e ancora e ancora. Riprendiamo la Clio blu in direzione Berchidda, a metà strada verso Porto Torres. Ma a Berchidda non c’è niente. Le strade salgono su tra le solite casette marce di vita, qualche Madonna, i bar pieni di vecchi sardi dalla testa dura, lassù fino alla croce. 《Una empanadas, per favore》. 《Quassi dicce Panadas eh! Empanadas lascialo ddire agli argentinni, aió!》. Così ammazziamo la fame fino a sera, con una salsiccia saporita, chiusa in un involucro di pasta fritta che ti porta a bere e ribere finché non hai smaltito il sale ben bene.

《Mi ricordo….andavamo qui con Giova, tizio e caio…il proprietario ci disse questo e quest’altro…ecco il bar…sì dev’esser questo. Venivamo a farci colazione…》. La memoria. Ecco cosa c’era in ‘sto paese. Ricordi andati a farsi benedire. I bei ricordi che pronunci con un pizzico di malinconia e che provi a riacchiappare inconsciamente tornando in un paese inutile, rientrando in quel locale per una partita a briscola o per guardarti intorno e basta, alla pietosa ricerca di una vita fa. Fuori tira un gran vento, due donne ragionano in lingua, si fanno auguri. Questo sardo è proprio incomprensibile, penso, altro che dialetto. Mica il toscano, che bene o male lo intendi. Qua siamo sul conservativo andante, latineggiante, con quelle k e g che restano velari e belle toste come stiaffi sul viso. Suoni duri che spostano lo sguardo fino alle montagne, su fino alla fine del paese, ad un piazzale surreale circondato da vecchie strutture mezze morte, una madonnina in mezzo, una scalinata e un presepe fatto di omini piccini che paiono veri e quasi ti sorridono aspettando la venuta del Cristo. La strada prosegue sbagliata come un pensiero improvviso, è la stessa secondaria che ti porta chissà dove, tra pecore e alberi senza corteccia. Il sughero tappera’ i rossi e i bianchi durante i bagordi, inzuppandosi di odore antico.

Sulla via per Sassari ci rinfiliamo attraversando un grande lago artificiale senza nome, spaparanzato come un pascia’. Da lontano una villa rudere osserva i rari passanti sul lago, come un guardiano. Senza pensarci troppo dico di andare, e basta. Io so come arrivarci. Parcheggiamo lungo la costa, saliamo su un muretto basso e iniziamo a camminare sulla vegetazione umida e la terra rossa. Un capanno ci separa dal vecchio guardiano di cemento, lo superiamo irrequieti. Con quegli olivi di contorno mi ricorda un film, la villa di un vecchio film degli anni ’60, o forse di un film recente ambientato in quegli anni, non saprei davvero. Un vecchio istituto psichiatrico, sì, dove ci stavano i matti, quelli che c’avevano un modo di guardare il mondo che infastidiva, talvolta violento, talvolta troppo dolce da togliere il fiato. Ecco le scalette su cui dormono rami secchi e cespugli lacustri, l’ingresso con le due colonne a sostenere le stanze bucate, infine il paesaggio che trapassa le pareti. I muri sono spaccati dal tempo, le fessure sgretolate, le scale dentro cadono a pezzi e il vento percuote, si immette spavaldo come una guerra lunga e logorante. Pace! Armistizio! Bandiera bianca. Sul ponte, sventola.

Va bene, basta così, quel che è stato è stato. Suvvia, stai sempre a sindacare – mi dico – a ricordare cose inventate, i film, i matti, i soliti muri. Che vuoi che facciano, ‘sti muri… Dai, immaginati pure una musica alla Ennio Morricone, fatti due pianti per il nulla che avanza, sii patetico fino alla morte. Ancora con le zingarate, in effetti…Ancora con il tocco sporco che ti dà l’idea di andartene lontano. Poi subentra il demone, Bokassa l’eroe degli atti finali, degli show indimenticati: “chiudi gli occhi, perdìo, e fantastica la vita che c’era e che poteva essere, sussurra parole conviviali, o di amore. Inventa storie, coglione! Inventale e trasuda personaggi, come me. Colora i popoli, macella le inibizioni, ciò che frena la vita, leggi una scritta bianca sul nero di fumo e fatti demiurgo. Prendi una villa, mettila a guardia di un lago e sorridi sugli scogli mentre l’acqua terrosa ingoia il bagnasciuga. Ma muoviti, perdìo”. Birre vuote sbattono sui sassi, i ragazzi ci vengono a parlare o a fare l’amore, quando tira poco vento e la stagione è calda. Ma ora è tutto fermo al punto zero, al primo stadio della genesi, ora c’è soltanto da filare e ripartire.

A Porto Torres Rosaria ci consegna le chiavi di casa, un piccolo appartamento  vicino al mare. Le vie in cui finiamo per trovarlo sono Malta, Tbilisi, Teheran, qui vige la legge dell’ovunque. Immagini sfocate, alcune più nitide, riemergono come sogni inattesi. È sempre così, il mondo mi insegue, stuzzica il desiderio, richiama all’ordine. “Non dimenticare quelle sensazioni – sembra dirmi – non dimenticare il tuo passato, i tuoi occhi sulle mie città…”

Non è estate, un brivido mi sale lungo la schiena. Qua non c’è vita o è nascosta oltre i giardini che ci separano dalla spiaggia. Ma una speranza c’è sempre, va soltanto cercata nei segni, nelle voci, qualcuno dice pure nelle nuvole, ma io ci credo poco. Ci spostiamo a Castelsardo, una chicca sul mare, un piccolo faro la protegge, un castello antico la comanda. Due vecchie signore vanno in chiesa a pregare Sant’Antonio Abate, vicino al campanile nato faro nel ‘300 o giù di lì. L’arco antistante la chiesa introduce su un piazzale che dà sullo spettacolo del mare. Quanto diavolo è enorme, barbaro, giocondo, le sue acque spavalde non hanno pietà di chi le osserva.《Eppure Leo, io non sento l’odore del mare. Non lo sento più 》. 《Ma come no! Certo che si sente, sei scemo? Fai un respirone》. Non lo sento più. Mai più.

Scoperto, beccato in flagranza di reato col cuore lucido e gli occhi abbassati. Tira troppo vento per sentirsi liberi, occorre stare attenti: proteggersi, per così dire, dalla malinconia che muove dietro ad ogni passo. I cannoni di Castelsardo sparano sull’orizzonte infuocato, mentre la sera incombe sul golfo fustigato dal maestrale. È ora di chiudersi dentro quattro mura, riprendersi dal conflitto in dieci minuti di vuoto assoluto. Il vuoto al lato di una piazza gelida, tra le pareti di un locale vivo e rumoroso. Una mappa della patria campeggia al centro come un logo massonico. La patria è tutto, l’isola ha i suoi confini ben marcati. Il nazionalismo sardo è un gioco naturale, qualcuno ci si arroventa come un ferro sulla brace, qualcuno beve e segue il cuore inzuppato per lasciarsi andare a monologhi di rivendicazione. A Castelsardo come Platamona o Alghero, sul mirto fresco si srotola la confusione dei più vecchi.

In una buia strada di Porto Torres, calato il sole, il circolo “La Pecora” offre bicchieri di vino a 1 euro l’uno.  Una benedizione per i fantasmi del lungomare. È qui che il barista gestisce le ire dei più invasati. Sentono le voci, quelli. Il più anziano e stordito, un fascista dichiarato, piscia a porta aperta, esce e si rivolge a me, scontroso:《C’è un uomo chemmi rrompe iccoglioni mentre urrinno. Tutte levvolte micchiama, aiò!》. Cazzo gli dici. Cerchi la quiete e ti ritrovi un mussoliniano della prima ora. Si ordina ancora, si brinda un’ora buona e risorge dalle stanze oscure.

È passato un giorno, o forse più, neanche ricordo bene. Il tempo in viaggio subisce delle mutazioni e si dilata, ti manda in corto circuito, perdìo. Leonardo indica la luna bianca, rotonda e stabile lassù, come un quadro appeso. È così che si insinua la notte riempiendo spazi inesplorati e strade ignote. Qualche stella compare sopra le barche che oscillano sull’acqua, mentre sparuti gruppi di adolescenti sacrificano l’innocenza negli anfratti del porto. Si immolano felici in un sabato che urla di bellezza e dolore.

Il Natale è nell’aria, i profumi fuoriescono dalle poche case abitate d’inverno. La Sardegna – dicono – freme di un odore antico di pietra e vino. Apro i polmoni in una ricerca tragica di sensazioni, ma non c’è niente da fare. Al limite un leggero sentore di salsedine, e niente più.

《Mi raccomando, respira forte quando arrivi…Respira》.

 

 

 

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