Bokassa non Paga : Amina e le Stelle

Bokassa non paga

DAY 1:

AMINA E LE STELLE

Un leone lento e silenzioso s’inabissa sul sedile morbido ingombro di roba, Claudione rulla tabacco alla guida e s’impantana in un’azione di millenaria tradizione. Ventisette euro di benza a completare, nove a testa per la precisione e siamo al pieno più pieno, serbatoio a posto, bagagliaio pinzo e pregno di stenti, trolley sudati, asciugamani spiegazzati e già sporchi di polvere. L’astronave parte alla volta del sud, il selvaggio sud: sono minuti di ripresa per la notte bianca, per qualcuno notti scellerate d’incubi bastardi, per qualcuno è ancora tutto regolare. In ogni caso ci si sente giovani relitti in holiday, soggiorni vagamente programmati sul niente di una mappa digitale. Maps gira e rigira capovolta e seguendo la linea blu del tracciato adoriamo il suo schermo sicuro. Il saluto manomano sancisce una duplice alleanza, Spotify passa i Sick Tamburo e un pezzo che forse parla di seghe ma non so. Poi la Consoli all’altezza di Rufina e Pontassieve e una sosta con pasta alla crema per inzuppare bene il primo sole. Si fa un po’ di Incisa così per velocizzare questo rotolìo che sì, sa di vacanza ma anche un po’ di fuga chi lo sa. Compare Arezzo ma si sfiora, giù, soltanto uno sfregarsi repentino per gettarsi verso Umbria e Marche, terre di confine continuo con il Lazio ché fai un passo e manco te ne rendi conto “ahó ambé cheseichefaidovaiefermadevelassù” dai Sibillini che sibillano e bisbigliano potenza. La montagna è già in bella vista sulla Perugia Roma e in vetta c’è una croce, perdìo guarda lassù! Il solito perpendicolarsi di assi abbandonate, la solita preghiera assente, mentre l’aria fredda ricrea un microclima decembrino. “Sie, la frescata ai piedi un s’ è mai vista”. A Cagli dal torrione alla piazza si rimediano due fette di pane e prosciutto, il gastronomo è un signore marchigiano amante del giglio: “Che siede di Firendze?”. Sette otto volte l’anno se ne va all’hotel Sergej che non è il suo vero nome ma così capisco e lo prendo per buono, ci va a scrocco a soddisfare gli occhi le voglie ed il palato “e quando me piage eqquando me brende”. Lo abbandoniamo lì al bancone a ripulire ché siamo in chiusura, per poi ritrovarlo in scooter sulla provinciale intento a bociarci la direzione del Bosso, quel serpentino d’acqua incastonato tra rocce socchiuse. Scendiamo a mollo tra rivoli di gente gozzovigliante e sonnecchiante d’ombra, intenta chi a tuffarsi chi a sognare sotto i faggi e chi a sgrifare la merenda. Tra i corpi unti e bisunti di crema solare spunta Amina, seduta sul sasso pendente.

Amina ha gli occhi scuri, un bikini giallonero, guarda i ragazzi bombardare il fiume dal massiccio sovrastante, distende le gambe brunite, poi le alza dondolandole in lunghi e docili assalti che segnano una linea di orizzonte mobile. È il mondo alla ribalta su e giù su e giù come su un’altalena la cui traiettoria è schiava, dettata dal bacino e dalle anche che muovono quasi a ritmo di una qualche musica lontana. Orecchini d’oro doppi un cerchio piccolo uno grande, la piega tra cosce e fianchi è una linea di colline levigate dal tempo, come le superfici tornite di vasi antichi ma vissuti di una giovinezza glabra. Un incrocio degli occhi e un moto del collo verso destra dichiarano una genesi d’intesa che inizia e finisce su sentieri scoscesi. “Ehi ti  ricordi di me? Ti ho mai amata? Non è che forse sei tu, sei proprio tu quella che se n’è andata?”, è un vecchio motivo anni trenta, una canzonetta d’amore che m’esce di sbieco, fa il giro e la contorna di fiori senza toccarla quasi a volerla evitare per pudore. A diritto invece lasciare libero il passo al guardare, che non siano mitigati i colori le righe del sonno e l’esserci qui e ora con passo danzante tra una pietra e l’altra. Così la lascio sul suo seno gonfio di melanina bruna, con le palpebre appassite di stanchezza e una bellezza bagnata di sole.

Le Marche si allungano imitandola  in una posa d’onda dolce moderata senza picchi d’ordine supremo  finché non s’arriva ai sacri Sibillini dove Io mi pensava, arcani mondi, arcana /
Felicità fingendo al viver mio!/ Ignaro del mio fato, e quante volte/
Questa mia vita dolorosa e nuda/ Volentier con la morte avrei cangiato.
Dal baretto sospiriamo assorti sulla scia di una cedrata, e siamo per niente cangianti di vita o di morte ma vestiti di fumo e parole non ancora scritte. Dal  campeggio crucco in vetta alla collina di Ferlenghe (!) spunta un nome di paese che la melodia respinge, inizia con la E. e accoglie vocali doppie e vuote, pochi abitanti, le Marche desertiche, i cespugli che rotolano in piazza come nei film western. Dov’è la “gende” qui? Dov’è l’accumulo estivo dei febbricitanti movidanos? Sono tutti in Croazia? Albania? Montenegro? Dove siete,  banda di giovani infetti, di lebbrosi, di pestiferi infami? “Vedi ghe g’è ‘nfottìo de ggende eh”. Ah sì? Nel frattempo solo tre quattro donne si fanno coraggio, sugli scalini di casa, portando avanti una progenie di ciarle e veleni. Il lavatoio con le sue sette vasche illude l’aria di un rumore scrosciante e perenne là dove non giungono le cicale. La noia incombe sotto i cippi commemorativi, le anime dei partigiani morti, sulle briciole di un’ottima pizza bacon croccante pecorino e pepe alla pizzeria Provenza. Col cameriere stanco e la parlata romanesco-albanese immaginiamo frotte di immigrati marchigiani dai Balcani occupare la striscia di terra adriatica, accoppiarsi nei secoli dei secoli sotto il sole di agosto, dietro cespugli di ginestre fiere.

Amina torna a sorridere alla fine del tramonto, sulle prime luci orfane. La sua sagoma riappare sul selciato, dietro l’unico locale in cui risuonano dei beceri anni ottanta e le madri ballano sui sampietrini, e poi in alto sdraiata sulla linea dei monti…piega la bocca di lato in una smorfia muta ed elegante, poi la apre mostrando denti bianchi e regolari, la spalanca sempre più di gusto e le note del suo riso risuonano sulla notte odorante di carogna infrascata e Ricordanze. Infine tace scende giù e il suo corpo rimpicciolisce dietro la collina, noi ci corichiamo strafatti di afa e di richiami al padre onnipotente. “Io dormo fuori, mi sto appiccicando diobestia”. Una tenda da tre per tre non è abbastanza le zanzare sono già entrate alla zitta Amina se n’è andata e il caldo molesta silenzioso. Tanto vale star fuori, sotto le stelle che cadono come vecchi soldati.

Ivan Ferraro

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