A S’AV DEM, SOLDA’ di Bokassa non paga

A S’AV DEM, SOLDA’

di

Bokassa non paga

 

 

 

 

 

 

Mentre risalgo la SP503 in direzione Passo del Giogo l’acqua inonda l’asfalto e ticchetta sul vetro quasi a ricordarmi la mia scaltra inettitudine…
Schiaccio il pedale, seguo i lineamenti umidi della Montanara con una carontide Clio che oramai tocca i 120.000, noto che a valle un ampio manto di sole sta ricoprendo il Mugello da San Piero a Vicchio. “Non ce la fai proprio a venirmi dietro eh, razza di palla obesa?!”
Solo a Firenzuola un po’ di sole, i vapori invadono le strade luccicando logge e lastricati, e la chiesa che si innalza sulla pubblica piazza col suo stile compatto e un po’ fascista.
All’ingresso del bar tabacchi  si voltano tutti, in pieno stile “Un lupo mannaro americano a Londra”, quando i poveri David e Jack arrivano al villaggio di East Proctor e cercano riparo al pub “L’Agnello Macellato”: ma dopo un primo sguardo-molotov l’attenzione torna alla Gazzetta e agli affari di paese.
E’ uno sgarrupato luogo di frontiera, una televisione sempre accesa, le noccioline e i pistacchi, le foto marroncine classe ‘58, la birra che schiuma, i cinghialai di ritorno dal bosco che ingurgitano gottini di vino e panini pomodori secchi e finocchiona, il maschio vero che ostenta cicatrici e tatuaggi da calcio storico, comunicando fiducia e amore: «Cos’hai da guardare?» Distolgo lo sguardo e ordino una spuma bionda che almeno dà un dolciastro sapore di niente alla mattinata. Poi mi faccio coraggio.
«Scusate il disturbo, un’informazione al povero viandante, sapete dirmi dove si trova Castiglioncello?… No, non quello sul mare…no…dicono sia un borghetto mangiato dalle ortiche»,
«Ma tu non sei di qui»
«No»
«Tu non sei … di qui»
«No!»
«Posto strano, quello…comunque vai verso Imola per dieci chilometri… poi sinistra, lo vedrai dalla strada, ah sta’ attento che non ti crolli tutto sul groppone…basta…un filo d’aria…alle volte!».
Ringrazio senza troppa convinzione, saluto e riparto sulla Montanara Imolese. Inizio a sudare e non so per quale assurdo motivo il radiatore butti fuori aria calda non richiesta. Dieci chilometri di sauna finché a Moraduccio, confine di Stato, una minuta ottuagenaria di Romagna non attira la mia attenzione: «Castiglioncello, signora?». Bofonchia qualcosa in una protolingua e capisco soltanto “bar”, “strada bar”, o “vai al bar”…. In effetti, Castiglioncello me lo ritrovo sul lato nord in altura poco prima di un bar ristorante: eccolo là, oltre un’imponente cascata che sembra quasi sfidarlo; se ne sta su un poggio, col campanile storto e l’aria di chi la sa lunga ma non ha più voglia di raccontare.

Scendendo verso il Santerno registro leggere palpitazioni di vita, costeggio una casa vuota con un giardino divenuto una foresta e un attenti a un cane morto da secoli. Attraverso il ponte sul fiume e ricomincio a salire lentamente. Finisce che ribollo, mi spoglio di felpa ed eskimo, mentre la nuvoletta di Fantozzi torna a posarsi di tanto in tanto sopra la mia testa. Imbocco uno stretto sentiero ricoperto di sterpaglie, erbacce, tronchi di alberi per traverso, serpenti che affollano il mio cervello terrorizzandomi al minimo fruscìo. Mi vedo già stritolato dal noto pitone firenzuolese:
Il cadavere di un giovane barbuto tosco-calabro-saudita ritrovato mezzo secolo dopo da un gruppo di sfigati papaboys (TG della sera, anno 2066).
Finalmente sbuco davanti al principio del borgo, forse la vecchia osteria “punto ristoro”, o magari il municipio  di Castiglioncello che pure avrà avuto un diavolo di rappresentante!
Mica sapevo niente io, ma di fatto quassù non c’è anima viva. Solo queste quattro pietre vigliacche abbandonate da metà ‘900 che imbiancano di anno in anno. E la natura vorace che si riprende tutto quanto TUTTO…!
Immagino un via vai continuo di mercanti, doganieri e contadini. E lei, la Natura, che a quei tempi si sentiva un po’ più accattivante, imbellettata di ghirlande, sedotta da nugoli di fonemi: adesso una Giunone dai capelli bianchi e il cuore immobile. Lo sgretolarsi delle  macerie al suolo, la terra che le ingoia, la macchia che avanza come un carroarmato.

Sul campo di battaglia dove campeggiano ruderi sconfitti, il vento si libera dai rovi, mi supera e attraversa un’ampia radura con i resti di un antico falò, per infilarsi curiosando nell’ultima casa del borgo. La animano bizzarri murales: un enorme piede rosso è in procinto di pestare un escremento e si ripete su ogni lato come un simpatico avvertimento.
Rimbalza, il vento di aprile, torna indietro disegnando arabeschi, spingendo i miei passi ovunque sia possibile percepire una presenza concreta. E finalmente capisco che questo luogo distrutto…adoro…! Il caos?… il fumo?…i muscoli in tensione? Fi-ni-to!
Provo a farmi qualche foto ricordo, ne esce fuori una cartolina opaca con soldato di ritorno dal Vietnam, mentre mi riprometto di tornare lì, sotto le stelle, passarci una di quelle notti memorabili in cui racconti ciò che non racconti mai, o ascolti quei silenzi che fan più di un armistizio.
Mi avvicino a un finestrone decorato di foglie, lo sguardo che si perde lontano fino al mare, volendo; direzione ovest la Clio in attesa, la casa rossa della vecia, il suo dialetto balbuziente, il bivio per Palazzuolo e i tornanti come cerchi infernali; più a sud il dorso gibboso che si moltiplica fino a schiantarsi su frontiere di pietra serena, il valico, gli schianti dell’industria… Pam! Pum! Pum! La guerre! Di nuovo il caos, per dio! E alla fine un fumo strambo che sa di casa, chiacchiere sguaiate, e la solita domanda bastarda: “Ma che ci fai lassù da solo?!”
Che ci faccio qui?

Mi scuoto dal dubbio mentre l’aria si fa improvvisamente fredda, mi copro di nuovo  e ripercorro i caseggiati sghembi, registro le scritte sui muri crepati: una stella a cinque punte e l’inno alla lotta armata, diverse date-ricordo e gli “Alfonsina ama Vittorio”. Su una trave un genio ha scritto “Ufficio turistico” come se questa fosse una delle tante tappe del mondo. Ma è solo l’ombra di una Storia morta. “Niente elettricità, siete in pochi, scendete giù fate un affare!”. E il prete intanto suona a morto, me l’immagino con la sua lunga tonaca che un po’ gli girano perché quassù, in fondo, si era preso il suo stipendio senza sbattersi poi tanto, tra una confessione e un Ite missa est. Adesso solo imprecazioni dalla chiesetta sventrata, dove il tetto ha firmato la resa già da un pezzo. “Tciò, Tin bòta eh!” urla Dio dall’alto dei cieli. TIENI BOTTA.
Una Madonna sontuosa domina l’altare e un “Mame llevame a Jesus” campeggia sulla destra combattendo un Lucifero incazzoso. Il Male contro il Bene, signori miei, una guerra da condurre adagio, ché basta un  Padre nostro fatto bene e crolla tutto una volta per sempre.
D’improvviso pallidi volti si affacciano alle finestre, «E’ tardi!». S’inalberano, sventolano lenzuola bianche, invocano al silenzio e al coprifuoco!
«Andem a durmì che sta zenta la vo ande a chesa! Sempre i soliti siete».
«E sol e suga,l’aqua la bagna, Dio i fa e pò i acumpagna!!».
«Eh solda’! Beviti un poco de ven»
«E basta Alcide alora! con ‘sto ven!»
«Eh Adelin! L’aqua la fa mêl, e’ ven e’ fa cantê»
«O l’aqua o gnint»
«Mat!»
« ​Oh! Piot​òst che gnint l’e’ mej pot​òst»

« E tu che di’ solda’? …Tu che non sei…di qui…
E Mo smettla, vai a chesa. U’n gnì pò fè piò gnint per tutta ‘sta malora. At salùt, burdèl!»

«At salut», rispondo, mentre dell’uomo non resta che un filo di vento.
Ombre di popolo rientrano nelle mille bocche nere, un anziano maledice i santi prima di accasciarsi e fondersi nel muschio. Le donne tirano dentro i panni e svaniscono dietro le persiane, l’oste spegne il fuoco e si dissolve nel fumo delle braci.
In preda a una strana inquietudine, me ne torno indietro, il tempo ha corso più del tempo. Riprendo il sentiero verso la nuova Imolese, il suono della cascata accompagna il mio passaggio. Anime antiche sembrano affollare di nuovo l’ora del tramonto alle mie spalle, sento un uomo sbracciarsi dall’altura:
«A s’av dem, solda’!»
“A s’av dem”, rispondo tra me e me senza voltarmi, gli occhi persi nell’Appennino, annegando in un niente che sa di qualche cosa. E non so cosa.

 

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