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I dannati della Terra

di Leonardo Romagnoli

I dannati della Terra

tre riflessioni interessanti sul tema dei migranti  utili per un approccio diverso al problema fuori dalle strumentalizzazioni poltiche.

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Un dolore senza nome

Di Claudio Magris

Corriere della sera  7.4.11

Nella parabola evangelica degli operai della vigna quelli che hanno lavorato soltanto un’ora, l’ultima della giornata, ricevono lo stesso salario di quelli ingaggiati all’alba, che hanno lavorato tutto il giorno. Ma, se avevano atteso oziosi tutto il giorno, è perché nessuno prima li aveva chiamati; perché fino a quel momento non avevano avuto, a differenza degli altri, alcuna opportunità. L’inaccettabile disuguaglianza di partenza tra gli uomini, che destina alcuni ad una vita miserabile e impedisce ogni selezione di merito, va dunque corretta, anche con misure apparentemente parziali e disegualitarie, come fa il padrone della vigna.
Il mondo intero è un turpe, equivoco teatro di disuguaglianze; non di inevitabili e positive diversità di qualità, tendenze, capacità, doti, risorse, ruoli sociali, bensì di punti di partenza, di opportunità. È un’offesa all’individuo, a tanti singoli individui, che diviene un dramma anche per l’efficienza di una società. I profughi che arrivano alle nostre coste e alle nostre isole appartengono a questi esclusi a priori, a questi corridori nella corsa della vita condannati a partire quando gli altri sono quasi già arrivati e quindi perdenti già prima della gara. A parte il caso specifico dell’emergenza di queste settimane, con tutte le sue variabili – l’improvvisa crisi nordafricana, la confusione e mistificazione di pietà, ragioni umanitarie, interessi economici e politica di potenza, la lacerazione e l’impotenza o meglio quasi l’inesistenza di un’Europa con una sua politica – quello che è successo e succede a Lampedusa non è solo un grave momento, ma anche un’involontaria prova generale di eventi e situazioni destinati a ripetersi nelle più varie occasioni e parti del mondo, di migrazioni inevitabili e impossibili, che potranno aprire un abisso fra umanità, sentimenti umani e doveri morali da una parte e possibilità concrete dall’altra.
Il numero dei dannati della terra, giustamente desiderosi di vivere con un minimo di dignità, è tale da poter un giorno diventare insostenibile e rendere materialmente impossibile ciò che è moralmente doveroso ovvero la loro accoglienza. In Italia certo ancora si strepita troppo facilmente, dinanzi a una situazione peraltro ancora sostenibile e meno drammatica di altre sinora affrontate in altri Paesi. Ma quello che è avvenuto a Lampedusa è un simbolico segnale di una possibilità drammatica ben più grande; se a Milano o a Firenze arrivasse di colpo un numero proporzionalmente altrettanto ingente di fuggiaschi, le reazioni sarebbero – sgradevolmente ma comprensibilmente – ben più aspre. Quello che è successo a Lampedusa dimostra, con la violenza e l’ambiguità di una parabola evangelica, la necessità e l’impossibilità di una autentica fraternità umana universale, il dovere e il non potere accogliere tutti coloro che chiedono aiuto.
Proprio per questo, proprio perché la situazione è così grave e implica contraddizioni forse insanabili per la civiltà, quel di più di ottuso rifiuto razzista, di calcolato e manovrato allarmismo, di livida chiusura è inaccettabile. C’è un elemento quasi simbolico e in realtà terribilmente concreto che esemplifica questa tragedia e richiama la parabola evangelica interpretata in questo senso da un saggio di Giovanni Bazoli. Barconi sono affondati nel Mediterraneo, persone sono annegate senza che di esse si conosca il nome. Questi operai non hanno avuto la chiamata e nemmeno il salvagente dell’ultima ora; sono stati cancellati dal mare come se non fossero mai esistiti, sepolti senza un nome. Di molti, nessuno forse saprà nemmeno che sono morti; ad essi è stato tolto anche il minimo di una dignità, il nome, segno di un unico e irripetibile individuo. La cancellazione del nome è un oltraggio supremo, di cui la storia umana è crudelmente prodiga. Livio Sirovich, in un suo libro, racconta ad esempio di un bambino ebreo nato in un lager di sterminio e ucciso prima di ricevere un nome. Meno tragico ma altrettanto umiliante è quanto racconta il maresciallo Chu Teh, lo stratega cinese della Lunga Marcia, quando nelle sue memorie dice che sua madre contadina non aveva un nome, come non lo avevano le galline del pollaio, a differenza degli animali che amiamo e cui rivolgiamo affetti e cure. Nella cerchia allargata della mia famiglia acquisita c’è, in passato, una bambina illegittima, causa dell’ostracismo destinato a quell’epoca a sua madre nubile, morta piccola; ho cercato invano, a distanza di tanti decenni, di ritrovare il suo nome e sento come una vergogna non esservi riuscito.
Il mare è un enorme cimitero di ignoti, come gli schiavi senza nome periti nella tratta dei neri e gettati nelle acque dalle navi negriere. Oggi – nonostante le gravi difficoltà, fra l’altro messe ingiustamente soprattutto sulle spalle dell’Italia – si può e quindi si deve fare ancora molto per accogliere quelli che il Vangelo chiama gli ultimi e che è difficile immaginare possano veramente un giorno diventare i primi, come il Vangelo annuncia. Talvolta sono vilmente contento che la mia età mi possa forse preservare dal vedere un eventuale giorno in cui non fosse materialmente possibile accogliere chi fugge da una vita intollerabile.

 

 

La Legge della Disperazione

 

 

 

 

 

Di FERDINANDO CAMON

La Stampa  7.4.11

 

 

 

 

 

 

Ora sappiamo la «verità» sull’immigrazione. Credevamo di saperla anche prima, ma era una bugia.
Finora la verità erano le migliaia di immigrati che s’accumulavano a Lampedusa, tanti da superare gli abitanti dell’isola, il loro bisogno di tutto («sono miserabili»), le loro pretese («sono intrattabili»), le loro rampicate su per le reti di recinzione, fino a scavalcarle e scappare per i campi, vanamente inseguiti dalla polizia a piedi o a cavallo, come nei film tra California e Messico.
Quella non era la verità, era un’apparenza. Perché faceva credere a noi e a tutta l’Europa che arrivasse un’umanità pericolosa e non integrabile, una minaccia per il decoro del nostro benessere. Scattava l’istinto di tenerli alla larga. Era l’istinto di conservazione, tanto più forte quanto più alto è il benessere da conservare. Questa strage di circa duecento uomini, donne e bambini, annegati in un crudele gioco di su e giù sulle onde di tre metri, ci butta in faccia una verità brutale che i nostri cervelli e i nostri nervi, intorpiditi dalla civiltà borghese nella quale siamo nati e nella quale moriremo, non ci permette più di cogliere. Ci metteremo giorni a capirla un po’, a ogni tg capiremo qualcosa di più. Non capiremo mai tutto, perché i tg evitano di spaventarci, di farci del male. E la strage fa male. Solo sapere che è avvenuta e che può ripetersi turba la nostra vita, non ci permette più di vivere come prima. Ora sappiamo che non scappano da una vita misera. Scappano dalla morte, e attraversano la morte pur di scappare.
Se la vis a tergo fosse un miglioramento della vita, non potrebbe spingerli per giorni e notti, farli navigare senza direzione, mal guidati da qualche rudimentale strumento che fa della loro navigazione un lungo tuffo nel buio fra acqua e cielo. Spesso il motore si rompe, manca l’acqua, e loro si mettono a pregare, singolarmente o in coro. È la «morte lenta», che può durare anche giorni e giorni. Fino a diventare indefinibile: in qualche salvataggio si scopriva che a bordo c’era qualcuno già morto da tempo, che i vivi non avevano le forze per sollevarlo oltre la sponda. Altre volte dai racconti si poteva dedurre che qualcuno era stato buttato fuori della barca senza la certezza che fosse morto.
La strage di ieri entra invece nella «morte rapida», resa più crudele dal fatto che è avvenuta in prossimità della salvezza. Han visto arrivare nel buio, ombra nell’ombra, la nave che li soccorreva, si sono spaventati, nel panico si sono spostati in massa dentro l’imbarcazione capovolgendola. Era la salvezza, è diventata la morte. Ci sono transiti dalla vita alla morte che sono governati senza pietà. La «morte rapida» è sempre uno scontro con la natura, gli uomini usano le loro forze e la natura le sue: gli uomini perdono tutti, ma per primi perdono i più deboli, i bambini e le donne. Così qui è successo che alcuni salvati han visto morire la moglie e i figli. Dobbiamo fare ancora un altro passo, se vogliamo capire fino in fondo cos’è la migrazione: le disgrazie come questa (annegare in massa) tutti i migranti sperano che non avvengano, ma un pezzettino del loro cervello, un pezzettino inascoltato e nascosto, sa sempre che non sono impossibili. Si parte con quella spia accesa nel cervello. Con quei barconi stravecchi, tra quelle masse umane vaneggianti e inesperte, noi pensavamo che le loro partenze notturne, via una barca sotto l’altra, fossero una sfida a noi, alla polizia, alla finanza, una questione di ordine pubblico.
Per loro sono una sfida al destino, una lotta tra la vita e la morte. Se uno ce la fa, salva se stesso e coloro che da lui verranno. Abbiamo visto in passato barconi sfracellarsi sugli scogli, otto-dieci fortunati scendevano, e raccontavano dei compagni morti nella traversata: ma quelli che scendevano alzavano due dita in segno di vittoria. L’Italia e l’Europa ci mettono tutta la forza delle leggi e dei trattati per impedirgli di venire qui. Ma loro ci mettono la forza della disperazione per venire. Lo scontro è fra queste due forze. Ora lo sappiamo.

 

Un impegno di tutti a ospitare i migranti

 

 

Di Carlo Petrini

 

 

Si trattava in massima parte di donne e bambini che dormivano in coperta. Il 25 ottobre 1927 la "Principessa Mafalda", vicino alla costa del Brasile, affonda portando via con sé più di 300 italiani, e non si hanno a disposizione dati certi perché il regime fascista era restio a fornire notizie precise su tali questioni. Erano altre ondate migratorie, un secolo fa, ma è la stessa macabra contabilità che ci troviamo ancora ad aggiornare periodicamente, com´è successo ieri e come purtroppo succederà ancora.Morti diverse, ma nello stesso unico grande mare dei migranti. Sul "Sirio" e sulla "Principessa Mafalda" c´erano italiani, nostri connazionali in cerca di un futuro diverso altrove. I cantastorie che animavano i mercati di paese ci hanno tramandato le loro vicende attraverso canti popolari che fino a pochi anni fa si sentivano ancora nelle osterie: «Siamo partiti da nostri Paesi per andare in America lontana/ Trenta giorni di nave a vapore/ Fino in America siam arriva´/ Abbiam trovato né paglia né fieno/ Abbiam dormito sul nudo terreno/ Come le bestie abbiam riposa´». Si intitola L´America allegra e bella, la chiamano l´America sorella. Tante, troppe analogie con i tunisini che gridano «Italia! Libertà!», che affondano con i barconi, che sono ammassati come bestie e che nessuno vuole. Ormai esiste la certezza che la politica nei prossimi anni si troverà in continua emergenza sulle migrazioni, perché come ha scritto Giorgio Bocca è utopistico pensare di fermare queste ondate, men che meno con i trattati. Si possono alleviare lavorando perché queste persone vivano in modo dignitoso nel loro Paesi, ma dovremmo aiutare l´Africa a diventare un po´ più ricca. Nessuno dimentichi che nell´indifferenza più totale da parte della comunità internazionale laggiù si stanno espropriando milioni di ettari (oltre 50) di terra fertile con la connivenza dei governi locali. Succede in Etiopia, Ghana, Mali, Sudan: si danno in concessione terre per 20, 30, anche 90 anni a Paesi come la Cina o la Corea per produrre derrate, soprattutto biocarburanti. La terra è il bene più prezioso che hanno gli africani, la chiave per una loro rinascita. Invece s´intensifica questo fenomeno del "land grabbing", li abbiamo costretti a monocolture di cotone, caffè e cacao e poi si originano speculazioni sui prezzi del cibo che è inevitabile che conducano alla disperazione e alla fuga. Non è niente di nuovo, perché anche i piemontesi, i veneti, i molisani, i siciliani che abbandonavano le loro campagne per salire su navi come la "Sirio" o la "Principessa Mafalda" lo facevano per fame. E le loro rimesse in Patria sono state fondamentali per costruire quel benessere in cui viviamo oggi. A parole diciamo di voler aiutare gli africani, ma nei fatti li costringiamo a scappare. A questo punto, davanti a una situazione che sembra non avere vie d´uscita e produce morti e disperati, mi sembra necessaria una grande mobilitazione. Mi rivolgo in particolare alla sinistra e ai suoi valori ispiratori di solidarietà e di fraternità (la sorella povera di liberté ed egalité). Ma non parlo solo ai partiti, parlo di una mobilitazione che metta in atto forme di accoglienza diffusa e armonica sul territorio, rafforzando l´esempio della Regione Toscana. C´è una straordinaria rete associativa e di volontariato che può dare un vero ausilio alle nostre amministrazioni regionali, di qualsiasi colore esse siano. Sarebbe lo scatto d´umanità di una società civile che, tramite associazioni e movimenti, con i suoi organi più strutturati come i sindacati o le organizzazioni degli agricoltori, può portare a un´etica dell´esempio, che sappia parlare alle coscienze. Ci potrebbero anche essere forme d´impegno individuale in grado di recuperare quella diaspora silenziosa di militanti e persone intelligenti deluse dalla politica. In fondo se ogni porzione di territorio si prendesse in carico alcune di queste persone, si raggiungerebbero numeri affrontabili senza troppo sacrificio. Se riuscissimo a mettere in moto questa grande operazione politica, in grado di parlare alla gente e farla uscire dalla paura del diverso, dalla paura che ci attanaglia a ogni angolo, daremmo l´esempio più grande che possiamo dare. Coscienti che tanta della nostra economia vive del loro lavoro, come i macedoni e rumeni che coltivano le vigne del Barolo e del Barbaresco, le migliaia d´indiani che curano le bestie nelle stalle del Parmigiano Reggiano, gli extracomunitari che stanno negli alpeggi in Val d´Aosta o chini nei campi del Meridione a raccogliere frutta e verdura. Lavori che gli italiani non vogliono più fare. Nobilitiamoli, diamo un segnale, provochiamo una ventata di aria pura in questo momento politico così deprimente. Scateniamo una reazione contro la paura e a favore di popoli che vivono le stesse disumane condizioni dei nostri nonni e bisnonni. Teodorico Rosati, ispettore sanitario sulle navi dei migranti italiani verso Ellis Island a inizio ´900, scriveva: «Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con i piatti tra le gambe, e il pezzo di pane tra i piedi, i nostri emigranti mangiavano il loro pasto come i poveretti alle porte dei conventi. È un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare sul quale si rovesciano tutte le immondizie volontarie ed involontarie di quella popolazione viaggiante».

 

 www.slowfood.it

 

 

 

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