Con i migranti la Germania ci dà una lezione

L’Italia non firmerà il Global migration compact dell’Onu. È l’ultimo esempio di una politica migratoria che porta il nostro paese a subire il fenomeno e non a gestirlo. Ben diverse le scelte della Germania, dove la priorità è l’integrazione lavorativa.

Situazione demografica e del mercato del lavoro

In un’Europa che invecchia rapidamente e in cui non si fanno più figli la forza lavoro immigrata sarà sempre più rilevante. Tuttavia, la gestione delle migrazioni legali (ovvero l’ingresso di migranti economici) non sembra una delle priorità dei governi del continente. Ne è prova anche la recentissima polemica sul Global migration compact, l’accordo internazionale sulla gestione delle migrazioni,per il quale l’Italia non intende partecipare alla Conferenza di Marrakech del prossimo dicembre.

Una posizione diversa è rappresentata dalla Germania, in cui l’economia positiva aiuta a compiere ragionamenti a lungo termine, di natura demografica. Nonostante l’immigrazione sia uno dei temi più discussi all’interno della (fragile) coalizione, in ottobre il governo tedesco ha raggiunto un’intesa per la riforma della legge che la regola, introducendo un nuovo strumento per attrarre manodopera straniera.

Italia e Germania sono in questo momento i paesi Ue più in crisi dal punto di vista demografico, con saldi naturali profondamente negativi (differenza tra nati e morti, rispettivamente -190 mila e -148 mila). Tuttavia, nel 2017 la popolazione in Germania è cresciuta (+328 mila), mentre quella italiana è complessivamente diminuita (-105 mila).

Ciò è dovuto a una chiara differenza nelle politiche migratorie. La Germania ha registrato infatti un saldo migratorio nettamente positivo (frutto di molti arrivi e poche partenze), mentre in Italia si ha contemporaneamente un calo degli arrivi di immigrati e un aumento delle partenze, sia di italiani che di stranieri (nonché di stranieri naturalizzati).

Dal punto di vista occupazionale, invece, il divario tra Italia e Germania è significativo: 17 punti percentuali di differenza nel tasso di occupazione (75,2 per cento contro 58) e oltre 7 punti di differenza sul tasso di disoccupazione (3,8 per cento rispetto a 11,2). Nel corso del 2018 la Germania ha raggiunto la cifra record di 45 milioni di occupati, +15 per cento rispetto ai 39,3 milioni del 2005.

Con una inflazione del 2,3 per cento, nel terzo trimestre del 2018 per la prima volta si è registrato un calo del Pil dello 0,2 per cento, mentre figura in diminuzione dello 0,6 per cento il lavoro autonomo che conta 4,3 milioni di occupati. Anche i cosiddetti “mini-jobs”, con paghe particolarmente basse, sono in calo. Contemporaneamente, l’efficiente sistema informativo tedesco del lavoro segnala ancora almeno 750 mila posti vacanti (che le imprese non riescono a coprire), in particolare nei settori logistica e trasporti, metalmeccanico, estrattivo e carenze nel settore medico-sanitario (punto delicato in uno dei paesi più anziani del mondo).

Tabella 1 – Dati demografici e occupazionali: confronto Italia-Germania

Fonte: elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Eurostat

Un confronto impietoso

Mentre in Italia gli ingressi di immigrati per lavoro si sono fortemente ridotti a partire dal 2011 con la chiusura quasi drastica dei flussi per lavoro (Migranti economici cercasi), negli ultimi anni la Germania ha mantenuto un alto numero di ingressi: come si può notare dal grafico, il saldo migratorio è rimasto molto elevato, con il culmine nel 2015 per l’afflusso di rifugiati.

Per nazionalità, i numeri più alti riguardano Turchia (1,5 milioni di residenti), Polonia (867 mila) e Siria (700 mila), mentre sul versante occupazionale negli ultimi anni sono cresciuti gli arrivi dall’Europa orientale e balcanica. Tra i richiedenti asilo, invece, le provenienze principali sono asiatiche (e non africane come avviene in Italia): Siria, Afghanistan e Iraq.

Grafico 1 – Saldo migratorio: confronto Italia-Germania

Fonte: elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Eurostat

La proposta di riforma della legge sull’immigrazione rappresenta poi un’ulteriore apertura. Verrebbe infatti introdotto un permesso di soggiorno per sei mesi per ricerca lavoro, a determinate condizioni (livello di educazione, età, competenze linguistiche, offerte di lavoro e sicurezza finanziaria). Il nuovo strumento, nelle intenzioni del governo di Berlino, avrebbe tre effetti:

  • nell’immediato, consentirebbe di attrarre nuova manodopera straniera, rispondendo in maniera mirata ai fabbisogni produttivi dell’economia tedesca;
  • più in generale, consentirebbe di separare in modo chiaro i percorsi dell’asilo e della migrazione economica, riducendo l’uso improprio dello strumento della protezione internazionale, fenomeno diffuso in Germania come nel resto d’Europa;
  • parallelamente, per quanto riguarda i rifugiati, lo sforzo del governo sembra quello di accelerare le procedure di asilo e di favorire l’integrazione nel mercato del lavoro.

 

Ancora più nette le differenze tra Roma e Berlino nel monitoraggio degli indicatori di integrazione. In Italia l’ultimo rapporto sul tema è stato fatto dal Cnel nel 2013 (dati 2011). In Germania, l’Ufficio federale di statistica ha incorporato alcuni indicatori di integrazione e ne cura periodicamente il monitoraggio. Tra questi, il tasso di naturalizzazione; il numero di abbandoni scolastici; il numero di laureati; la partecipazione alla forza lavoro; il tasso di dipendenza dai “benefit” del welfare; la quota di lavoratori di origine straniera impiegati nel settore pubblico; il tasso di proprietà delle abitazioni, la quota di persone di origine straniera ammesse al voto elettorale.

Anche il sito web dell’Ufficio federale per l’immigrazione e l’asilo (Bamf) è particolarmente accurato, con informazioni per i nuovi arrivati e per gli stranieri residenti.

In definitiva, se l’Italia, negli ultimi trenta anni, ha “subito” l’immigrazione anziché gestirla (ne sono prova le ripetute “sanatorie” o la gestione dell’accoglienza in continua emergenza, la chiusura dei flussi d’ingresso), la Germania ha stabilito alcune priorità, legate alla situazione economica e al mercato del lavoro.

È vero che la posizione geografica è diversa, ma la Germania  (pur non dovendo gestire sbarchi) è stata ed è lo sbocco della rotta balcanica.

Nel complesso la politica migratoria tedesca appare dunque orientata all’integrazione lavorativa, sia dei rifugiati che dei migranti economici, riducendo i tempi per le procedure amministrative e di conseguenza i costi di gestione. Analisi dei fabbisogni del proprio mercato del lavoro in tempo reale, chiarezza di obiettivi nella gestione del fenomeno dei profughi, grande attenzione all’integrazione sociale degli immigrati con appositi monitoraggi. Sulla sicurezza poca propaganda e molta sostanza, in un paese abituato ad esigere sempre il rispetto delle leggi ai propri cittadini e quindi preparato a chiedere lo stesso anche agli stranieri.

Pur con le dovute differenze le tensioni sociali sono inferiori al quelle del nostro paese, il clima culturale è più articolato. Anche così si difendono gli interessi dei cittadini tedeschi.

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