Smascheriamo le furbizie del populismo forcaiolo

Smascheriamo le furbizie del populismo forcaiolo

di Glauco Giostra

La Lettura – Corriere della Sera, 5 gennaio 2020

Le campagne di chi invoca misure sempre più repressive e nega la funzione riabilitativa della pena sono molto efficaci. Non basta, per contrastarle, ricordare il valore dei principi costituzionali. Bisogna venire incontro alla richiesta di sicurezza che sale dall’opinione pubblica, dimostrando che nella realtà dei fatti il furore vendicativo contro i detenuti non riduce affatto i pericoli, anzi li aumenta, per i cittadini onesti.

In una democrazia emotiva come l’attuale, la legislazione penale costituisce lo strumento elettivo di una politica capace soltanto di assecondare la propria bulimia di consensi: esibire ringhiosità punitiva non costa nulla e, se è certo che non risolve nulla, costituisce ostentazione elettoralmente assai remunerativa. Si tratta, infatti, di un placebo che il Dulcamara di turno riesce a vendere facilmente quale convincente dimostrazione che, avendo a cuore le paure della gente, è determinato ad apprestare drastici e risolutivi rimedi.

E purtroppo, come magistralmente scriveva l’autrice tedesca Christa Wolf nel suo romanzo “Medea” (Edizioni e/o), “non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto desiderio di crederci”. Viviamo un tempo in cui, anche per l’effetto moltiplicatore dei social network, slogan e parole d’ordine si diffondono epidemicamente, generando convinzioni à la carte che aggregano consenso: un ghiotto boccone per una politica intenta più ad accodarsi alle processioni dei follower, che a guidarle.

Assistiamo anzitutto, quasi impotenti, alla corruzione delle parole. Nel diritto penale liberale, ad esempio, la locuzione “certezza della pena” suonava come una garanzia; oggi suona come una minaccia. Ma non si tratta soltanto di un caso di “abusivismo semantico”, bensì della spia di un tralignamento funzionale dello strumento penale: il processo diventa un’arma per combattere la criminalità; il carcere, un luogo dove segregare i colpevoli, gli sconfitti, magari dopo averli esibiti a mo’ di preda con raccapricciante compiacimento di Stato.

Non si cerca più di recuperare alla società un buon cittadino, rispettando la dignità del condannato e offrendogli – se meritevole – opportunità di riabilitazione sociale; ci si preoccupa soltanto di renderlo inoffensivo per tutto il tempo della pena, negandogli ogni speranza di poterne mutare modalità e durata con il proprio fattivo comportamento.

È pur vero che a questa politica “incostituzionalmente orientata” si contrappone la giurisprudenza della Corte costituzionale che, con una frequenza che dovrebbe far riflettere qualsiasi politico degno di questo nome, rammenda pazientemente gli strappi procurati al nostro tessuto normativo dalla demagogia legislativa.

La via giudiziaria, tuttavia, unico motivo di ottimismo nel tempo presente, non può bastare. Non solo per il rilievo tecnico che i pronunciamenti giurisdizionali, dato il loro carattere episodico e disorganico, non potranno mai supplire alla mancanza di un compiuto disegno riformatore.

Ma anche perché, per quanto questi pronunciamenti possano condurci avanti, al primo “stormir di fronda” una scorreria legislativa si incaricherà di riportare indietro il sistema, costringendo a una frustrante fatica di Sisifo: gli odierni tentativi di “sterilizzare” la decisione della Corte costituzionale riguardante i permessi all’ergastolano per reati cosiddetti ostativi, dopo le scomposte polemiche che l’hanno preceduta, stanno a dimostrarlo, se mai ce ne fosse bisogno. Per quanto arduo possa apparire, si deve cercare di contrastare la regressiva politica securitaria sul suo terreno, trovando una strategia di comunicazione che renda il cinico populismo penale elettoralmente meno lucrativo.

Per farlo, le ragioni del diritto non bastano. Pur ineccepibili, non trovano ascolto nell’opinione pubblica: sono demagogicamente inermi. È necessario cambiare contenuti e modalità della comunicazione. Nell’attuale contesto, osservare che l’espressione “devono marcire sino all’ultimo giorno in galera” è una grossolana sgrammaticatura costituzionale, tanto più preoccupante se pronunciata da soggetti con responsabilità istituzionali importanti, significa opporre una critica emotivamente imbelle. Una siffatta risposta non ha presa perché trascura l’interesse di cui invece l’opposto approccio mostra di farsi carico.

Essa anzi finisce per accreditare la diffusa, mistificante impressione che vede, pretendono che la pena detentiva sia scontata fino in fondo, rinchiudendo ermeticamente i pericolosi criminali entro le mura del carcere; dall’altra, i “buonisti”, gli indulgenzialisti, coloro che sono ossessivamente ed esclusivamente preoccupati della sorte del condannato.

Mentre gli uni trasmettono un messaggio del tipo: “Non siate allarmati, questo pericoloso individuo verrà recluso per tutto il tempo della pena entro mura ben presidiate”; gli altri rispondono: “È un suo diritto costituzionalmente garantito vedere abbassare gradualmente i ponti levatoi di quelle mura, se dimostrerà un significativo progresso di riabilitazione sociale”.

Bisognerebbe, invece, contrapporre alle esibite rodomontate punitive una perentoria avvertenza: la segregazione senza speranza mette a grave rischio la sicurezza sociale. Un’affermazione di cui non sarebbe difficile alla bisogna dimostrare il fondamento.

Il proposito di lasciare marcire i detenuti in galera sino all’ultimo giorno della pena inflitta, dobbiamo ribadirlo, non è solo in contrasto con la Costituzione e con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani: è un attentato alla sicurezza sociale. Questa è l’idea che si dovrebbe riuscire a inoculare nelle vene mediatiche.

Naturalmente, tutto ciò richiede operatori dell’informazione preparati, capaci ad esempio di rispondere, alla grancassa mediatica che accompagna il reato commesso da un soggetto che sconta fuori dal carcere la sua pena, che soltanto lo 0,5 per cento degli ammessi alle misure alternative commette reati; oppure di ricordare, a chi invoca la certezza della pena come antidoto al pericolo criminale, che alla pena espiata sino all’ultimo giorno in galera consegue poi un indice di recidiva nel delinquere intorno al 70 per cento.

In una “democrazia dell’opinione pubblica” come l’attuale bisogna insomma trovare antidoti comunicativi che sappiano smascherare gli imbonitori, sfidandoli sul loro terreno preferito dell’insicurezza e della paura.

Se si sapranno contrapporre accadimenti e slogan demistificatori (naturalmente sorretti dalla testarda realtà delle statistiche); se si saprà forgiare, per così dire, una demagogia costituzionalmente orientata, in grado di educare il popolo (nel senso etimologico di condurre) ai valori della Costituzione, gran parte della collettività potrebbe accogliere con favore una risposta penale che si faccia più credibilmente carico delle sue inquietudini, senza alimentare sentimenti di paura e di vendetta.

Beninteso, e affinché non ci si prenda per ingenui velleitari, siamo ben consapevoli che aveva ragione Mark Twain: “È più facile ingannare la gente che convincerla che è stata ingannata”. E su questo probabilmente fanno affidamento gli impresari della paura, i costruttori di muri, gli inventori del nemico.

Si tratta dunque di risalire – come pesci anadromi – una forte corrente; ma non è dato rinunciare, perché sono in gioco non soltanto il senso e la funzione della pena, ma anche la qualità della convivenza civile. Il modo con cui lo Stato esercita il suo magistero punitivo, infatti, è un sensibile, strano sismografo che registra in anticipo i futuri smottamenti della democrazia.

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