Le mascherine non sono tutte uguali

Le mascherine non sono tutte uguali

Entro pochi giorni tutti i cittadini della Toscana riceveranno a casa tre mascherine di tipo chirurgico per limitare il contagio da Covid-19. Nelle scorse settimane sull’onda dell’emergenza è emersa la difficoltà del nostro paese di produrre e reperire milioni di mascherine per coloro che sono impegnati in prima fila nella lotta al virus e nell’assistenza ai malati, per coloro che sono impegnati quotidianamente in attività produttive indispensabili e in generale per tutti coloro che per vari motivi hanno necessità di muoversi durante la settimana motivi di approvvigionamento alimentare, sanitari o di altro genere. Sui giornali sono cominciate a moltiplicarsi le notizie di attività artigianali e industriali che si sono riconvertite nella produzione di mascherine per sopperire alle necessità causate dall’epidemia. Ma le mascherine che caratteristiche devono avere per offrire una reale protezione? Chi certifica la loro validità? Attività diverse hanno necessità di mascherine diverse?
Il decreto legge del 17 marzo (Cura Italia) ha semplificato le procedure per la validazione dei nuovi dispositivi senza ovviamente modificare i criteri di qualità a cui questi prodotti devono rispondere.
Questa disposizione sarà solo temporanea e, ad emergenza finita, si tornerà alla procedura standard anche per i dispositivi validati in questo periodo. Mascherine e protezione validate con l’iter semplificato dovranno poi ottenere la marchiatura CE con le modalità standard per poter eventualmente restare in commercio.

Per chiarezza dobbiamo dividere le mascherine in tre gruppi, quelle dedicate agli operatori sanitari, quelle dedicate a chi opera in un ambiente di lavoro e quelle destinate invece alla popolazione.

Mascherine Chirurgiche

Sono presidi ad uso medico, prodotti conformemente alla norma EN 14683, e hanno come funzione essenziale quella di proteggere il paziente dalla contaminazione che può provenire dalla vociferazione e, in genere, dall’emissione di gocce di saliva emesse dall’operatore che le indossa. Il materiale di cui sono costituite è, a tutti gli effetti, un filtro alla penetrazione dei microrganismi, ma l’assenza di una specifica capacità di aderenza al volto non impedisce che il contaminante possa raggiungere le vie respiratorie del portatore attraverso gli spazi liberi lasciati tra il bordo della maschera e il viso.

Facciali filtranti

Sono prodotti conformemente alla norma EN 149 e appartengono alla categoria dei “Dispositivi di Protezione Individuali”; sono quasi interamente costituite da un materiale filtrante e possono possedere o meno una valvola di espirazione. Sono le tanto ricercate mascherine FFP1, FFP2 e FFP3 e forniscono protezione al portatore dagli agenti esterni: aerosol solidi o liquidi. Non proteggono da gas e vapori e, ai fini della protezione da microrganismi, possono essere considerate idonee solo le semimaschere FFP2 e FFP3 (o i filtri P2 e P3). Al contrario delle mascherine chirurgiche questi dispositivi non proteggono chi è intorno ma chi li indossa, per questo è fondamentale mantenere la distanza minima di sicurezza.

Per quanto riguarda i materiali per il personale sanitario deve ottenere l’autorizzazione dell’Istituto Superiore di Sanità a cui vanno inviate le autocertificazioni con le prove di laboratorio che le rendono equiparabili al marchio CE. L’ISS risponde entro tre giorni. E fino ad oggi a fronte di 800 richieste presentate l”ISS ne ha bocciate 760. E alcune di quelle autorizzate devono ancora presentare i test prima dell’immissione in commercio.

Non solo, ma in Europa esistono solo tre laboratori autorizzati a fare i test, nessuno in Italia. Ci sono alcune università che sono impegnate in via straordinaria in questa attività ma non rilasciano certificazioni ed operano solo su richiesta di istituzioni pubbliche non di singole aziende. Questo vale anche per le semplici mascherine distribuite alla cittadinanza

Per quanto riguarda le mascherine per chi opera in fabbrica anche in questo caso c’è una procedura da seguire se pur semplificata.”Le aziende impegnate nella produzione di nuovi DPI dovranno richiedere all’Inail via pec la validazione allegando un’autodichiarazione (disponibile sul portale dell’Inail) in cui l’azienda stessa dichiara sotto la propria responsabilità che il dispositivo risponde ai requisiti di sicurezza a norma di legge. Dovranno poi essere allegati anche una relazione descrittiva, una relazione sui test effettuati, istruzioni d’uso e caratteristiche tecniche del DPI.“ Anche l’Inail deve rispondere in tre giorni.

Quindi la gran parte delle mascherine prodotte in questo momento di necessità non possono essere qualificate come Dpi e usate in campo sanitario, possono essere donate ai cittadini e utilizzate come le mascherine chirurgiche e sono utili per limitare il contagio solo se accompagnate dal rispetto delle indicazioni già fornite sull’igiene delle mani e la distanza tra le persone evitando assembramenti.

La possibilità di un loro riutilizzo dipende dall’uso che se ne fa e da quanto questa mascherina resta a contatto con il naso e la bocca e dalla capacità del tessuto di mantenere la sua capacità filtrante dopo il trattamento con soluzioni alcoliche o altre sostanze. Sulle informazioni allegate alla confezione di alcune mascherine c’è scritto chiaramente che la durata è di 8 ore.

Inoltre va ricordato che in base all’art 16 del decreto 18  può essere autorizzato “l’utilizzo di mascherine filtranti prive del marchio CE e prodotte in deroga senza validazione ma queste ultime non sono considerate né dispositivi medici né dispositivi di protezione individuale ma sono destinate in generale alla collettività e non richiedono tale autorizzazione.” E quindi non possono essere vendute in  farmacia.

Il professor Gasbarrini di Milano in un’intervista a Repubblica così ha risposto sul riutilizzo delle mascherine:

“In questi giorni stiamo facendo dei test sul riuso. Le mascherine chirurgiche no, vanno buttate ragionevolmente dopo l’equivalente di un turno di lavoro. Le più preziose Ffp2 e Ffp3 usate dal personale sanitario e dalle forze dell’ordine sì. Lei pensi ai vigili del fuoco, che non hanno grandissimi mezzi, quanto sarebbe utile. Ma se mi sta chiedendo se chiunque le può sanificare a casa le rispondo a malincuore di no”.
Come mai?

“Il problema non è eliminare l’agente patogeno. Può darsi che se le immergo nella candeggina, le strofino con l’ipoclorito di sodio o le metto a bollire si puliscono. Il punto però è garantire che quel materiale continui a essere efficiente nel filtraggio: il rischio è che venga facilmente danneggiato. Ed è pericolosissimo credere di essere protetti quando non lo siamo”.

Il nostro paese è stato colto impreparato e ,anche se ha reagito con fermezza e serietà, dovrà dotarsi prima possibile di una filiera capace di rispondere ad ogni emergenza ,composta da attività industriali in grado di produrre dispositivi di protezione di alta qualità e da laboratori autorizzati alla sperimentazione e certificazione di questi dispositivi così importati per la salute pubblica che non possono essere frutto di improvvisazione o peggio  di speculazione.

Leonardo Romagnoli

7.4.20

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