Più investimenti in istruzione e sanità

La ricetta di Cottarelli contro l’ineguaglianza: “Una tassa globale e più investimenti su istruzione e sanità”

* Direttore Osservatorio Conti pubblici Università Cattolica di Milano, dal 1988 al 2013 dirigente del Fondo Monetario Internazionale, quindi commissario straordinario alla spending review per il governo Letta fino al 2014

Il sistema sociale ed economico che ha dominato il mondo negli ultimi due secoli – il capitalismo – non è certo in crisi dal punto di vista globale. Gli ultimi due decenni hanno visto una crescita del reddito globale a tassi più elevati di quelli sperimentati negli ultimi trent’anni del secolo scorso, nonostante la crisi globale del 2008-09. Al tempo stesso la distribuzione del reddito è diventata più equa, con l’uscita, secondo la Banca Mondiale, di un miliardo di persone dalla povertà assoluta. Il mondo, in termini economici, non era mai stato meglio.

Leggi la pagina di Better capitalism

Eppure, il futuro del capitalismo nel XXI secolo appare precario in almeno tre dimensioni.

  1. La prima riguarda le implicazioni ambientali della crescita economica, la sostenibilità ecologica.
  2. La seconda riguarda il senso di perdita di identità connesso alla globalizzazione dei flussi di merci, capitali e persone, quella che potremmo chiamare sostenibilità culturale.
  3. La terza riguarda la crescente concentrazione della ricchezza e del potere economico in un numero sempre più ristretto di imprese e individui, la sostenibilità distributiva.

Migliorare il funzionamento del capitalismo e rendere meno precario lo sviluppo globale di lungo periodo, richiede politiche volte ad agire su queste tre dimensioni. In questa nota mi occuperò in particolare della terza dimensione, quella della sostenibilità distributiva.

È ormai noto che una riduzione della povertà assoluta e una distribuzione del reddito più egualitaria a livello globale è stata accompagnata da un aumento dell’ineguaglianza nella maggior parte dei paesi. Le due cose—minore disuguaglianza globale e maggiore disuguaglianza nei singoli paesi—non sono in contraddizione perché la crescita dell’ineguaglianza all’interno dei vari paesi è stata accompagnata da un forte spostamento della distribuzione del reddito dai paesi più ricchi (i cosiddetti paesi “avanzati” nella classificazione delle principali organizzazioni internazionali) ai paesi emergenti e in via di sviluppo. La crescente disuguaglianza nei vari paesi si è rivelata per ora sostenibile proprio perché i paesi relativamente più poveri beneficiavano di una crescita più elevata e i poveri di quei paesi diventavano via via meno poveri: perdevano strada nei confronti dell’1 per cento più ricco della popolazione dei loro paesi, ma il loro reddito aumentava rapidamente. Il problema dei cambiamenti nella distribuzione del reddito era più serio nei paesi avanzati dove, a partire dagli Stati Uniti, il reddito della classe media e medio bassa è rimasto stagnante negli ultimi decenni. Ma il disagio economico era comunque meno sensibile per questi paesi che partivano comunque da un reddito medio abbastanza elevato.

La crescita di movimenti populisti in diversi paesi avanzati suggerisce però che l’attuale situazione potrebbe prima o poi rivelarsi insostenibile. Cosa sarebbe necessario fare per correggere le tendenze in corso? La recente dichiarazione dei CEO di un paio di centinaia di imprese globali (definirle americane sarebbe riduttivo) sulla necessità di non considerare più il profitto come l’unico obiettivo dell’attività d’impresa, induce a pensare che la necessità di una correzione sia percepita anche da chi ha tratto benefici dalla redistribuzione del reddito a favore dei più ricchi. Ma c’è da fidarsi di queste dichiarazioni di intenti? E se non ci si può fidare, cosa dovrebbe fare lo stato, in quanto entità che rappresenta, in paesi democratici, l’intera comunità nazionale, per rendere gli sviluppi economici del capitalismo del XXI secolo più accettabili e meno precari?

Se il problema da risolvere è la concentrazione del reddito nelle mani di pochi, la soluzione più ovvia è quella di utilizzare lo strumento della tassazione progressiva a fini redistributivi. Si può sostenere che un aumento della progressività della tassazione potrebbe danneggiare l’efficienza economica riducendo gli incentivi a creare ricchezza. Tuttavia, vari lavori riassunti di recente in una pubblicazione del Fondo Monetario Internazionale (IMF Fiscal Monitor, “Tackling Inequality”, ottobre 2017) concludono che, partendo dall’attuale livello di progressività, una maggiore tassazione dei redditi più elevati non causerebbe significative perdite di efficienza economica e stimoli alla crescita. In realtà si tratterebbe soltanto di correggere in parte quella tendenziale riduzione della progressività della tassazione che è in corso nei principali paesi avanzati da circa quarant’anni.

Perché non lo si fa? Non lo si fa perché in un mondo sempre più globalizzato è sempre più difficile tassare i ricchi e il capitale perché questi si spostano più facilmente da un paese all’altro a seconda del diverso livello di tassazione. Questa maggiore mobilità genera una competizione tra paesi per attrarre capitale che è responsabile di quella tendenziale riduzione della progressività negli ultimi 40 anni cui si è appena fatto cenno. A colpi di tagli delle tasse sui profitti delle imprese e sui redditi più elevati, le politiche di tassazione hanno così finito per approfondire i cambiamenti nella distribuzione del reddito. Che fare allora? La soluzione ci sarebbe. Occorrerebbe un maggiore coordinamento tra le politiche di tassazione dei vari paesi a livello globale. Posto che esista, in un mondo senza barriere legali, un livello ottimale di progressività, perché tale livello non dovrebbe essere raggiunto solo per l’esistenza di una frammentazione delle legislazioni fiscali tra i 200 paesi del mondo? Se il commercio, i capitali, i movimenti di persone, i redditi sono globalizzati, perché non dovrebbero essere globalizzate anche le politiche di tassazione su tali redditi? Perché, in altri termini non dovrebbe esistere una World Tax Organization che almeno promuova una maggiore armonizzazione delle politiche di tassazione?

Il motivo per cui questo non avviene ha strettamente a che fare col fatto che la tassazione è l’essenza della sovranità e che trasferire parte della propria autorità di tassazione a qualche organismo internazionale è politicamente difficile, soprattutto in tempi di scetticismo verso il ruolo delle organizzazioni internazionali.

Ci sono allora altre soluzioni? Finora il concetto di disuguaglianza cui ho fatto riferimento è quello della disuguaglianza nei risultati, nei redditi percepiti. È noto come, parallelamente a questo concetto, esista anche un altro importante concetto, quello di uguaglianza nei punti di partenza, uguaglianza nelle opportunità. Il concetto è quello dell’ascensore sociale: a tutti va garantita la possibilità di vedere premiati i propri meriti e i propri sforzi. Purtroppo anche da questo punto di vista la situazione non è ottimale. Un rapporto dell’OCSE del 2018 (“A broken social elevator? How to promote social mobility”) prova come il livello di mobilità sociale sia basso anche nei paesi avanzati. Più difficile è valutare se la mobilità sociale si sia ridotta negli ultimi decenni ma vari studi concludono che, almeno negli Stati Uniti, “il futuro non è più quello di una volta” per usare un aforisma attribuito, tra gli altri, al giocatore di baseball italo-americano Yogi Berra.

Far funzionare meglio l’ascensore sociale diventa allora essenziale anche per rendere più accettabile una minore uguaglianza nella distribuzione del reddito. E’ il premio al merito, alla capacità di impegnarsi, alla abilità, all’innovazione. Ma premiare il merito diventa possibile solo se i punti di partenza sono sufficientemente livellati, garantendo a tutti almeno un adeguato punto di partenza. Il concetto dell’uguaglianza nelle opportunità è alla base della stessa rivoluzione sociale ed economica della fine del XVIII secolo (il bastone di maresciallo potenzialmente presente nello zaino di ogni soldato di Napoleone, in contrasto con la ricchezza e il potere che derivavano dalle condizioni di nascita della nobiltà prerivoluzionaria).

È così una componente essenziale dello spirito del capitalismo. È allora in questa direzione che occorre muoversi per migliorare il funzionamento del capitalismo del XXI secolo che sembra aver perso la capacità di garantire a tutti la possibilità della “ricerca della felicità”, per usare le parole della dichiarazione di indipendenza americana.

Cosa occorre fare per garantire una uguaglianza nelle opportunità a tutti? Quali politiche sono più adeguate? Occorre indirizzare la spesa pubblica verso la creazione di un adeguato capitale umano attraverso la pubblica istruzione e l’offerta di validi servizi sanitari per tutti. Pubblica istruzione e sanità sono beni essenziali per la costruzione del capitale umano e devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (sappiamo che questo non è il caso in Italia, per esempio). È anche ovvio che politiche volte a rimuovere disparità di ogni altro tipo, soprattutto quelle di genere e quelle relative alle disabilità, sono ugualmente importanti e possono concretizzarsi anche attraverso adeguati strumenti di regolamentazione e di tassazione differenziata. Non si tratta certo di un percorso facile, ma non vedo alternative se vogliamo rendere più accettabile il capitalismo nel XXI secolo.

https://it.businessinsider.com/

I commenti sono chiusi.