Besprizornye: una storia antica per i tempi d’oggi

Besprizornye: una storia antica per i tempi d’oggi

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Ci sono due modi di leggere la storia dei besprizornye, ricostruita da Luciano Mecacci con un’acribia da cui filtra una genuina (com)passione. La prima, ovviamente, è di tipo storico. Si tratta di recuperare la memoria di milioni di esseri umani dimenticati, tanto per cominciare. Il significato di besprizornye è, letteralmente, “senza controllo”, ma anche “senza tutela”. Fu la condizione di una massa enorme di bambini e ragazzi russi di entrambi i sessi che si trovarono coinvolti prima nella Grande Guerra, poi nella Rivoluzione e quindi nella guerra civile. Un problema sociale (e un dramma umano) che ha le sue radici prima del 1917 ma che diventa evidente e catastrofico nei primi due decenni dell’Unione Sovietica. Violenza, fame, carestie e un certo atteggiamento culturale fatalista tipico dei russi produsse orde di orfani abbandonati e randagi. “Orfani”, però, è un termine impreciso. Spesso erano gli stessi genitori a spingere i figli alla ventura, di fronte all’impossibilità di mantenerli.

Bambini di sette, otto anni erano ritenuti abbastanza grandi da potersela cavare da soli e lasciati per strada, messi su treni con destinazione ignota, o consegnati a orfanatrofi da cui era fin troppo facile (e comprensibile) scappare. Inutile dire che questa situazione produsse un fenomeno sociale che rappresentò una vera e propria galleria degli orrori. Radunatisi in bande di vagabondi, strettamente gerarchizzate, i besprizornye di notte occupavano gli interstizi delle città (depositi, sotterranei, rovine) e di giorno infestavano le strade rubando, truffando, drogandosi e ubriacandosi, prostituendosi – in un’allucinante rovesciamento di quella che consideriamo la natura innocente dell’infanzia. Una vera piaga sociale, evidentissima a tutti i visitatori stranieri ma anche ai comunisti al potere: “Tra i pensieri che vengono / inondando il paese / sulla fronte del paese / tutta rughe per le avversità / all’ordine dell’anno / del mese / del giorno / mettete lo slogan: lotta alla piaga dei besprizornye”, scriveva Majakovskij nel 1926. E in effetti per lungo tempo lo Stato cercò di affrontare il problema alla luce della costruzione dell’“Uomo Nuovo”, di cui i besprizornye erano una sinistra negazione. Sui besprizornye furono scritti libri e fatti film.

Educatori, psicologi, sociologi, studiosi analizzarono e proposero ma con risultati scarsissimi, scontrandosi con due scogli insuperabili. Il primo, la fragilità del sistema sovietico degli inizi, che aveva – dal suo punto di vista – ben altre priorità da risolvere. Il secondo, una specie di biologica, pre-storica avversione dei besprizornye a integrarsi in qualsiasi sistema sociale, avendo una volta per tutte dichiarato guerra alla civiltà e a qualsiasi società “regolare”. “Io lo so a chi devo tagliare la gola!… Ci hanno cacciato come dei cani rabbiosi, ma non si sono sbarazzati di noi. I ragazzini sono stati troppo intelligenti. Si sono messi assieme e ora noi non abbiamo niente da temere. (…) Derubiamoli, picchiamoli e godiamoci la vita finchè siamo vivi!”, è il programma di Mishka, uno dei personaggi del romanzo autobiografico di Kolja Voinov, lui stesso un ex-besprizornye. Così, di fronte all’impossibilità di una soluzione concreta, il problema dei bambini randagi diventa, negli anni del terrore staliniano, una semplice questione di ordine pubblico. Molti besprizornye finiscono prima in galera, poi nei GuLag. Dove, paradossalmente, si adattano benissimo alla legge del più forte, perché è la sola che conoscono: anche se spesso finiscono per esserne le vittime, a causa della loro giovane età. Dopo la guerra di besprizornye non si parla più: sia perché la lunga emergenza si estingue pian piano, sia perché il tema viene considerato tabù. Solo da poco, ci dice Mecacci, l’accesso agli archivi ha consentito un approccio oggettivo e non ideologico.

L’altro modo di leggere il libro è usarlo come una carta velina dei confronti della modernità. Lo smarrimento dei visitatori stranieri, da Louise Bryant (la moglie di John Reed) a Joseph Roth, davanti a un fenomeno visibilissimo ma allo stesso tempo metabolizzato dal senso comune del tempo in forme di indifferenza o di aperta intolleranza, non può fare a meno di ricordare a noi italiani di oggi la scandalizzata reazione di molti concittadini europei davanti agli eventi che hanno coinvolto in questi ultimi mesi il salvataggio e lo sbarco di migranti nel Mediterraneo. Leggendo oggi le cronache di allora, intuendo lo smarrimento che se ne ricava di fronte alla negazione di quello che consideriamo “umano”, non si può fare a meno di capire come “umano” sia anche il passaggio di molte persone alla pura e semplice insofferenza verso le sventure altrui. Anche con i besprizornye, a un certo punto, il problema sociale finì per confondersi con le persone in carne ed ossa. La miseria produce miseri: e dato che è difficile eliminare la miseria, è più facile eliminare fisicamente i miseri. La trasformazione di un’emergenza sociale e umanitaria in questione di ordine pubblico (o di “sicurezza”) accomuna Stalin e Salvini. E i ruoli in gioco nella tragedia che si svolse in URSS cent’anni fa sono malinconicamente simili a quelli che vediamo rappresentati oggi. Fa una certa impressione vedere le fotografie dei convogli organizzati da Save the Children negli anni Venti (l’organizzazione fu fondata nel 1919) per soccorrere le masse dei besprizornye e confrontarle con le attività delle ONG di oggi, compresa la stessa Save the Children. E simile in modo impressionante a quel che succede oggi è anche il modo in cui la società sovietica, pur combattendo il fenomeno, se ne faceva contemporaneamente complice, attraverso lo sfruttamento dei corpi: sia con la prostituzione minorile maschile e femminile, sia con l’utilizzo dei besprizornye internati come forza lavoro a costo zero.

Fino alla formidabile intuizione di integrarli nelle forze armate in funzione di corpi d’assalto da buttare in pasto al nemico. Così, in una corrispondenza dal fronte russo-finnico nel 1941, Indro Montanelli descrive un gruppo di paracadutisti catturati, composto da quelli che lui chiama “figli di nessuno”: “Non hanno né istruzione civile (solo pochi sanno leggere e scrivere) né militare. Sono degli autentici selvaggi, e da un certo modo di comportarsi vien fatto di dubitare che abbiano una qualunque sensibilità. Però sono coraggiosi e fedeli alla loro parola di soldati. Non si avvedono punto che impiegati a quel modo sono condannati al macello.” Il cerchio si chiude.
Una volta di più la vicenda dei besprizornye ci dimostra come la storia ci offre le chiavi per interpretare il presente. Sempre che se ne abbia davvero l’intenzione.

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