Presentazione del libro di Cinzia Sciuto sul multiculturalismo oggi a Borgo

Non c’è fede che tenga: manifesto laico contro il multiculturalismo
Presentazione del libro di Cinzia Sciuto

Sabato 29 settembre alle ore 17:00 presso l’Auditorium del Centro d’Incontro in Piazza Dante si terrà la presentazione del libro Non c’è fede che tenga : manifesto laico contro il multiculturalismo (Feltrinelli 2018) di Cinzia Sciuto, filosofa, giornalista e redattrice della rivista MicroMega. Oggi in Europa viviamo in società sempre più disomogenee dal punto di vista etnico, religioso e culturale. Una situazione inedita di tali dimensioni che impone di ripensare le forme della convivenza. Secondo Cinzia Sciuto, la strada da percorrere per una convivenza capace di ospitare la disomogeneità senza violarla è quella di una visione etica e politica radicalmente laica. Un saggio contro le pretese velleitarie del multiculturalismo, il quale tenta di promuovere il riconoscimento e il rispetto dell’identità linguistica, religiosa e culturale delle diverse componenti etniche di una società perdendo però di vista che il soggetto titolare di diritti è solo ed esclusivamente il singolo individuo e non i gruppi.
Sarà presente l’autrice.

Conduce la presentazione Andrea Banchi. Seguirà aperitivo.
La presentazione è organizzata dal Book Club Lettinsieme della Biblioteca Comunale insieme alla Sezioni Soci Unicoop Borgo San Lorenzo e alla Libreria Parigi e Oltre.
Ingresso libero.

L’inganno del multiculturalismo

di Cinzia Sciuto

“Multiculturalismo” è una parola ingannevole, perché ha implicazioni molto più ampie di quelle a cui prima facie si è ingenuamente indotti a pensare. Rimanendo sulla superficie delle cose, multiculturalismo rimanda al variopinto incontro di tradizioni, usi, costumi, cibi, mode, musiche. Fa pensare ai festival etnici, alla pizzica ballata in Norvegia, al kebab mangiato a Londra, alle sonorità arabe che si diffondono in alcuni quartieri delle grandi città europee, alla pizza divenuta ormai piatto universale eppure ancora così intimamente legata all’Italia, alle contaminazioni in arte e letteratura.
Fin qui, tutto bene. Il problema sorge quando dalla constatazione di una società multietnica e multiculturale – dunque di una disomogeneità nei fatti di lingue, usi, costumi, tradizioni, religioni, etnie che convivono nell’ambito della stessa società – si fa derivare il principio che i membri della comunità politica vadano trattati diversamente a seconda della loro appartenenza alle diverse “comunità” etnico-cultural-religiose e che le “culture” minoritarie vadano salvaguardate così come sono (o si presume che siano) e in quanto tali. Quando, cioè, dalla constatazione di una pluralità di usi, costumi, tradizioni, lingue, fedi si fa derivare una pluralità di diritti che, inevitabilmente, conduce a una pluralità di sistemi legali. Un approccio che ha procurato enormi danni al processo di integrazione degli immigrati in molti paesi europei.
La logica comunitarista/multiculturalista[1]immagina che si diano degli “oggetti” ben identificabili e de-finibili – le “culture” – e che sia necessario attuare delle politiche ad hoc per “tutelarli”. Peccato che le “culture” non siano degli oggetti naturali rinvenibili osservando la società, ma siano esse stesse delle costruzioni sociali continuamente in divenire. L’approccio multiculturalista, lungi dal “fotografare” la realtà, la plasma, creando quelle “comunità” che presume preesistano, attribuendo a esse – e, in ultima analisi, agli individui che si ritengono portatori di quelle culture – una serie di caratteristiche che si immagina debbano avere, ingabbiando le persone in categorie e stereotipi che stanno sempre troppo stretti o troppo larghi e non colgono mai la complessità dell’identità di ciascuno.

È molto interessante, da questo punto di vista, analizzare quello che è accaduto negli ultimi decenni nel Regno Unito, un paese che ha conosciuto una forte immigrazione di persone provenienti perlopiù – per ragioni legate alla storia imperiale inglese e alle relazioni privilegiate che il Regno Unito tuttora intrattiene con i paesi del Commonwealth – [2] dal Sudest asiatico. 

Per molto tempo gli immigrati provenienti da quell’area geografica si raggruppavano – e venivano raggruppati – secondo la nazione di provenienza: c’erano gli indiani, i pachistani, i “bangla”. La “comunità islamica” allora non esisteva.[3] Non che alcune di queste persone ovviamente non fossero musulmane, ma a pesare nella definizione (e nell’attribuzione) dell’identità era molto più l’appartenenza nazionale che non la fede. A un certo punto queste persone si sono “scoperte” musulmane, nel senso che la loro fede ha iniziato a prevalere come connotazione identitaria sugli altri elementi. A una connotazione plurale e geografica se ne è via via sostituita una singolare e religiosa, mettendo sotto lo stesso ombrello persone con storie, usi, costumi, tradizioni e lingue completamente differenti.

Kenan Malik, scrittore britannico di origini indiane, classe 1960, racconta che quando era giovane, a cavallo fra gli anni settanta e i primi anni ottanta, quel che contava per un ragazzo nato in India come lui non era tanto essere un musulmano quanto essere un nero e un lavoratore. Da un lato, dunque, un elemento che legava idealmente uno come Malik alle lotte dei neri d’America e, dall’altro, una connotazione squisitamente politica, di classe. Le associazioni degli immigrati, racconta Malik, avevano spesso una caratterizzazione politica, di norma laica e di sinistra, e non religiosa. L’origine del cambio di paradigma, secondo Malik, è rappresentata proprio dalle politiche multiculturaliste messe in atto dai governi dell’epoca che “non hanno risposto alle esigenze delle comunità ma, in senso lato, hanno contribuito a creare queste comunità imponendo identità alle persone e ignorando i conflitti interni che emergevano per differenze di classe, genere sessuale e all’interno della stessa religione. Hanno rafforzato non le minoranze ma i cosiddetti esponenti della comunità, che dovevano la loro posizione e influenza soprattutto alla loro relazione con lo Stato. […] Le minoranze non hanno costretto i politici a introdurre politiche multiculturaliste. Piuttosto, lo stesso desiderio di celebrare specifiche identità culturali, almeno in parte, è stato condizionato dall’implementazione di politiche multiculturaliste”.[4]

Una delle ragioni che hanno indotto i governi dell’epoca ad agire così, sempre stando alla lettura di Malik, è stata la precisa volontà di distogliere l’attenzione dagli interessi politici, di rompere la solidarietà di classe e sostituirla con quella religiosa, perseguendo una precisa gerarchizzazione delle appartenenze identitarie.

L’identità di ciascun individuo è un prisma complesso, in cui le varie “facce” prendono, ora l’una ora l’altra, il sopravvento per il combinato disposto di diverse circostanze. L’approccio comunitarista spinge affinché l’elemento determinante dell’identità di ciascuno non sia, poniamo, il genere o la classe sociale, ma la fede o l’origine etnica. Enfatizzare gli elementi etnici e religiosi a scapito di altri ha conseguenze sociali e politiche cruciali perché alimenta solidarietà identitarie anziché di classe o di genere.

In questo caso l’approccio multiculturalista ha giocato un ruolo centrale nella gerarchizzazione dei diversi elementi che caratterizzavano l’identità degli immigrati dal Sudest asiatico nel Regno Unito, facendone emergere e rafforzandone uno – quello religioso – che era, sì, presente ma non costituiva un elemento identitario. (…)

Essenzializzare le culture e focalizzare l’attenzione sull’elemento religioso, trascurando tutte le altre caratteristiche in nome delle quali gli individui si potrebbero raggruppare, è peraltro l’operazione tipica dei fondamentalisti, quelli islamici in testa, che non a caso invitano continuamente i musulmani a considerare la “umma” islamica come loro principale orizzonte di identificazione, a scapito di tutte le altre appartenenze che invece li distinguerebbero, incluse quelle che fanno riferimento ai paesi di provenienza o a quelli in cui si trovano a vivere. Una vera e propria azione politica che ha come obiettivo, fra gli altri, quello di indebolire i legami fra gli immigrati di fede musulmana e il paese in cui hanno deciso di vivere.

Nella narrazione fondamentalista, che in questo trova un inaspettato alleato in quella multiculturalista oggi tanto di moda specialmente a sinistra, quel che conta nel determinare la “tua” identità non è il genere, la nazionalità o la classe sociale, ma la fede. Tutto il resto passa in secondo piano.  (…)

La domanda cruciale è: le persone vanno viste innanzitutto come appartenenti ed esponenti della comunità e della cultura in cui è capitato loro di nascere o come cittadini autonomi in grado di avere con la propria stessa cultura un rapporto dialettico e maturo? Identità come appartenenza comunitaria o come cittadinanza, insomma? Assumere l’una o l’altra prospettiva conduce a risultati politici opposti: se la prima porta a indifferenza e mantenimento dello status quo, se non addirittura ad alimentare i conflitti identitari, la seconda induce a mettere in atto politiche che sostengano e promuovano le capacità dei singoli di interagire in maniera matura, dialettica e autonoma con il proprio background.

Il multiculturalismo – ossia trattare i diversi gruppi come comunità separate invece che includere i singoli individui come soggetti pienamente titolari di diritti – crea quella segmentazione della società che a parole dice di voler scongiurare. Il risultato non è più il “multiculturalismo” ma quello che Amartya Sen definisce “monoculturalismo plurale”, un proliferare di comunità parallele, ciascuna reclamante diritti speciali: “La coesistenza di diverse culture che stanno l’una all’altra come pecore nella notte può esser considerata un risultato di successo del multiculturalismo?”.[5]

Quel che si sta creando è una società segregata in cui si può forse sperare di mantenere la pace sociale, ma nella quale la violazione dei diritti rischia di essere all’ordine del giorno. D’altro canto, quando si perde di vista la persona – ovviamente con tutta la sua storia, la sua complessa identità, le sue molteplici appartenenze: tutti elementi che però emergono attraverso la persona, e non sono a essa sovraordinati – e la si guarda solo attraverso la lente distorta della sua cultura di appartenenza (o presunta tale), la deriva inevitabile è quella della segregazione della società in comunità parallele. (…) Ma allora, se le “comunità” come realtà sociali monolitiche e immutabili non esistono, come si può giustificare sul piano teorico il sostegno al comunitarismo, all’idea, cioè, che sia necessario apparecchiare un sistema di regole ad hoc per ogni e distinta comunità? 

Il comunitarismo è uno dei tanti esempi di ideologia che inventa il proprio stesso oggetto per poter giustificare la propria esistenza. Si giunge poi al paradosso quando l’approccio multiculturalista viene difeso invocando la libertà delle culture. Come argomenta Amartya Sen, “essere nati in un particolare contesto culturale non è di per sé un esercizio di libertà culturale, giacché non è una scelta. Al contrario, la decisione di rimanere decisamente nell’ambito di una certa tradizione culturale sarebbe un esercizio di libertà se la scelta avvenisse dopo aver considerato varie alternative”.[6]

Per realizzare tale condizione è necessaria una serie di presupposti, a partire da un sistema di istruzione pubblico e laico. Bisogna poi rispondere alla domanda: a quali conseguenze andrebbe incontro qualcuno che optasse per una diversa alternativa? Se, a prescindere da quale scelta si compie, non si va incontro a nessuna conseguenza – non solo in termini di sicurezza fisica (non rischiare la morte, punizioni corporali, imprigionamento), ma anche di condizioni economiche e di relazioni sociali (accettazione da parte della propria famiglia e della comunità, opportunità di lavoro e di carriera ecc.) –, solo allora la scelta si può considerare davvero libera. Ogniqualvolta invece una scelta si porta appresso anche solo l’ostruzionismo della propria comunità (come nel caso di chi decide di abbandonare i testimoni di Geova, che viene sostanzialmente espulso dalla comunità), è evidente che la scelta non è libera.

È chiaro che una scelta assolutamente libera non esiste, se non negli esperimenti mentali. Ma questo non significa che il “grado” di libertà non sia in qualche modo verificabile e che, nel continuum che va da una scelta imposta con la forza fisica (grado 0 di libertà) a una assolutamente libera (obiettivo ideale verso cui tendere ma mai compiutamente raggiungibile), non sia possibile individuare verso quale dei due poli si tende.
NOTE

 

[1] I termini “comunitarismo” e “multiculturalismo” fanno riferimento a uno spettro di autori con posizioni anche molto diverse fra loro. Qui si farà principalmente riferimento al comunitarismo multiculturalista di Taylor e al multiculturalismo liberale di Kymlicka. Sebbene quest’ultimo elabori la sua posizione proprio cercando di smarcarsi dalla posizione comunitarista, in quel che segue si cercherò di mostrare la sostanziale convergenza delle due posizioni. È per questo che i termini “comunitarismo” e “multiculturalismo” vengono usati in questa sede quasi come sinonimi.

[2] I cittadini provenienti dai paesi del Commonwealth, per fare un solo esempio, hanno pieno diritto di voto in Gran Bretagna nonostante non siano cittadini britannici. Si tratta quindi, almeno da questo punto di vista, di immigrati particolarmente “privilegiati”.

[3] Cfr. E. Manea, Women and Sharia Law, J.B. Taurus, London-New York 2016, p. 20.

[4] K. Malik, Il multiculturalismo e i suoi critici, Nessun Dogma, Roma 2016 pp. 55, 44.

[5] A. Sen, The Uses and Abuses of Multiculturalism, in “The New Republic, 27 febbraio 2006, tr. mia.

[6] Ibidem.
da micromega

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