Bokassa non paga – Sardinia II

 

SARDINIA (parte seconda)

La morte di Tharros

di Ivan Ferraro

 

 

“Cara mamma, noi stiamo bene. Abbiamo saltato il pranzo di Natale, ma ho perso 2 kg in pochi giorni, il che è positivo. La Sardegna d’inverno si ricopre di una pace mite e misericordiosa. Tacciono gli schiamazzi dei forestieri, picchiano l’aria come martelletti le ritmiche voci isolane. Le spiagge si godono la beata stagione dell’assenza alla luce intermittente dei fari di guardia. Ok? Saluta il babbo, a presto”. 

 

Mandale due righe ogni tanto, come i soldati dal fronte in tempo di guerra. Buttaci una pennellata di auto-compassione, un po’ di finta poesia perchè sei studiato, due indicazioni sulla salute tanto per suscitare ansia, così la catena non si rompe mai. Ché tanto non si rompe comunque, ma almeno è divertente.

C’è una penisola che si srotola dal lato della Spagna, se ne va per fatti suoi e si allunga fin dove può. Allora dico subito che penso alla storia della donna che amò il marinaio, solo che questo in quanto tale se ne partì per chissà dove, magari Barcellona o forse diretto verso Gibilterra e poi via oltreoceano e le Americhe lontane. Insomma c’era questa pastorella sarda dall’animalità ancestrale, selvaggia e sensuale, con tutto il suo ambaradan di stracci e il muso caprino come la Concia di Pavese. Insomma questa tipa, che sul serio c’aveva il suo perchè, alla partenza si disperò parecchio, e fece di quelle sceneggiate turche con pianti e lamenti che neanche una lagnosa prèfica dell’antica Roma. Quella guardò la nave allontanarsi e ci mancò davvero poco che non si tuffasse e ci arrivasse a nuoto, perdìo. Alla fine ci crepò per anni, sdraiata sulla spiaggia, affogata tra le lacrime bastarde. Del marinaio non seppe più nulla ma la tradizione vuole che qualcosa sia rimasto a mollo: si tese così tanto verso il mare che divenne terra e macchia e penisola ventosa. Sulla sua schiena eressero templi in memoria sua e in lode agli dei. Poi crollò tutto, venne il maremoto ma quella rimase imperterrita, nell’immobile attesa dell’eterno.

Si chiamò Tharros, propaggine sud della penisola del Sinis, villaggio nell’età nuragica e poi città fenicia nell’VIII secolo prima del Cristo. La pastorella incolta parlava protosardo e con il marinaio, che si chiamava Marco, s’intese poco o quello che bastava alle chiacchiere ridenti del pre-coito. La pecoraia fu toccata ai nervi, punita e immacolata dal suo amore a tal punto che, tendendosi all’orizzonte, venne chiamata e poi gridata in punta, dalle roche voci dei pescatori fenici: “Capo San Marco!.

Mancano pochi fotogrammi, qualche chilomentro di mare e di asfalto salato, e Tharros è raggiunta. Leone se ne sta alla guida perchè a lui piace guidare in questi giorni strani. Ha quei capelli che non sanno più dove andare, la barba folta e lo sguardo zeppo di roba come la sua testa. L’artista pensa più degli altri, si sa. L’artista rimugina e nobilita e sublima, prima che sia troppo tardi. Intorno tutto si rarefà, aumenta di volume, si amplifica come il suono riecheggiante nella cattedrale di Alghero, e la Sardegna diventa una patria onirica. Il lungomare, le spiagge rigogliose del nulla, il cielo coperto, gli appartamentini vuoti da affittare. La poesia della vista si posa sul cuore per trapiantarcisi per sempre, come atomi di esistenze passate conficcati nella memoria. «Potresti scriverlo, un giorno. Avresti il fegato di tirarlo fuori?»

La Clio blu posteggia avanti a un baracchino ancora chiuso, un punto ristoro per riscaldarsi e ripararsi dalla salsedine. Leone si gira una sigaretta con la sua solita flemma interessante, prima di scendere giù sul bagnasciuga dove un pescatore canticchia melodie improvvisate. Sulla cima di un lieve schienale un castellotto di guardia se ne sta impettito a guardare chi passa e chi non passa, squadra pure noi che filiamo dritti al di là della collinetta antica, verso l’apice che non si vede, l’ultima tensione verso il mare. La stradina è stretta e si allunga per due o tre chilometri, affollata di macchie e qualche casupola zitta; sulla sinistra a scendere spuntano villettine rustiche coi comignoli spenti. Lì sotto il mare è calmo come un lago, mentre a destra si agita come il fratello cattivo. In mezzo la fulgida schiena di Tharros abbandonata al cielo. Il cammino crea distanze appuntite, ognuno pensa a sè mentre la macchia accompagna i nostri silenzi danzando con millenaria eleganza. Penso che potrei viaggiare di questo passo per chilometri e chilometri, mantenendo il respiro costante e un’andatura media. Nel frattempo il sole cala e, dopo aver esplorato un piccolo e desolato casotto in pietra, raggiungiamo la fine, la triste fine addossata sulle acque che si uniscono in punta. «Dividiamoci, io a destra e tu a sinistra, ritroviamoci là, sotto il faro di San Marco». Entrambi seguiamo una linea parallela al reticolato, in due direzioni opposte, per poi provare a scendere giù verso il mare e riunirci. D’un tratto sono stanco come la luce abbacchiata, e mi siedo sul cumulo di sassi.

“Adesso accade – penso – come in quel film degli anni ’70”. Un vecchio dalla barba canuta vestito di stracci si avvicina minacciando l’aria col suo occhio torvo: «Come ti permetti di sederti là! Quella panca appartiene al capitano Dabalkuss! Chi sei tu per sederti su quella panca?». «Nessuno» «Proprio così, non sei nessuno! Lo sai chi sono io invece?». Un’ultima occhiata carica di odio prima di voltarsi e tornare sulla strada polverosa. Resto lì a guardare il mare, dimentico dell’accordo impossibile, ché tanto io e Leone non ci troveremo mai perchè, sotto il faro di San Marco, c’è un baratro molle e azzuffato di flutti omicidi. Nessun punto panoramico, nessun ricongiungimento. Tharros si è spezzata e le onde s’infrangono sulle sue macerie. Torno indietro dall’altra parte, riscendo di nuovo e Leone è lì che fuma la sua paglia. «E’ stata proprio una bella trovata venire qua». Abbiamo entrambi capelli ribelli, un paio di occhiali a testa, la voglia di sorridere un po’ ma senza impegno. Ci scattiamo una fotografia per ricordo nel luogo che conta più di tutti gli altri. Di solito sta in mezzo al viaggio, è un po’ più freddo di sempre, è uno spazio desertificato, quasi del tutto disumanizzato. Laggiù passano pochi ruvidi isolani con la canna da pesca e il retino, persino qualche curioso a controllare che non emerga qualche balena a meraviglia, nel piattume mosso illuminato dal sole d’inverno.

Anche la natura sembra sgretolarsi mentre risaliamo la scogliera in cerca di un sentiero che ci riporti indietro. I sassolini rotolano giù nella scarpata, lungo la sponda di Abele. Ci imbattiamo in un piccolo molo su uno specchio d’acqua cristallina. Un capannone ingordo di cactus si accartoccia su se stesso ospitando bidoni arrugginiti e lattine di birra. A lato sventola una malconcia bandierina italica piena di buchi, ciondolante e abbandonata al suo tiepido sole.

Dal castellotto due parapendii sorvolano l’acqua senza toccarla, prendono direzioni inaspettate, sembrano schiantarsi contro la roccia per poi riprendersi all’ultimo. Sulla spiaggia un uomo barbuto mette a posto l’armamentario per la pesca, mentre il figlioletto svuota il secchiello prima di lasciare il regno appena costruito. Più in là, oltre la sabbia fresca, la giovane barista passa il mocio come a dire “basta sono stanca, si fa festa”, accingendosi a chiudere battenti e pregustando i bagordi di casa. Da lassù si spalancano i sensi, l’olfatto recepisce ciò che aveva perso, l’occhio si aguzza nella sera che avanza, niente è come di consueto. Si vede Bosa, più a nord, l’Unione Sarda dei lavoratori che compare in Via Cugia, tra i muri anneriti del paese. Natale si tinge di una patina assuefatta all’amarezza quando vediamo i quattro comunisti dell’arci spuntare da una porta nascosta dall’edera. La casa del popolo è un nascondiglio ideale per divorarsi la disoccupazione in birre e amari nella speranza che la stagione arrivi presto e che si ricominci a ingranare. Che Guevara li guarda appeso al muro, con il suo busto impostato e duro come il marmo. Dalla finestra appannata la nebbia cala sulla piazza centrale e sul nostro palazzo ottocentesco. Catapultati fuori un’ora dopo mi addormento sulla panca di una viuzze secondaria, e Leone perde le mie tracce. «Dove sei amico mio? Te ne sei andato via prima di me?». Può darsi. Il mirto rosso violaceo è misto al sangue che scorre e  narcotizza, addomestica l’impeto di un sabato sera come tanti, lo inebetisce. Sento le voci:  «Ivan! Ivan!». L’accento diventa martellante e capisco che mi cercano anche i giovani ragazzi sardi con cui si è fatto amicizia in uno dei pochi locali affollati. Ma io niente. Dal castellotto di Tharros mi vedo stanco, arrotolato nel sonno, accarezzato dalla foschia notturna che avvolge Bosa come una coperta.

La vista spalancata raggiunge anche Sedilo, la sua grande piazza muta nella notte di Natale. Nessuno si muove, le foglie degli alberi tremano un po’, ma niente più. Sedilo è chiusa in se stessa nell’attesa del cristo, ma mi fa un po’ strano, abituato ai clamori della vigilia mugellana, ai bar aperti, alle chiese che richiamano i fedeli. Vedo noi due che passeggiamo in cerca di qualche anima viva, ma niente. Forse è troppo presto. Solo il pub del paese è colorato di gente che brinda, sono già tutti sbronzi e tracannano pinte di birra prima di cena. Un tizio indossa delle ridicole corna di renna su un cappellino natalizio e invita ad alzare i bicchieri. Le ragazze rimpicchettate per l’occasione si lasciano un po’ andare ma con moderazione; nel sorridere alcune hanno paura di scucirsi, tengono la bocca chiusa, strizzando un po’ le labbra a punta senza aprirle. Ordiniamo e mangiamo con trasporto, trangugiamo carne e patate, beviamo della buona birra in boccali opachi e schiumosi. Tra i fumi di due sigarette che fanno da ornamento conclusivo a una cena ricca e luccicante, spuntano i parenti sardi, così, all’improvviso. Un incontro, una chiamata rapida, 《sono in campagna, arrivo》. Dal castellotto di Tharros, la dolce e disperata Tharros, vediamo avanzare un uomo ben piazzato, le mani grosse, tarchiato come un cosacco. Lunghe pergamene si srotolano sul tavolino in legno, raccontando con occhio serioso e un accento deciso diatribe famigliari, storie di fratelli, emigrazioni. 《Quanto si paga il latte da voialtri?》. Il latte come il sangue scorre nelle viscere della terra sarda, le dà linfa vitale, la nutre come una poppante indifesa. Il racconto dura ore, fino al giorno dopo e il giorno dopo ancora, passando per palii antichi e popolari, sotto l’arco dell’eretico Costantino. Centinaia di cavalli popolano il pendio sotto la chiesa straboccante di voti.

Nel mare di Tharros si confondono le acque del grande lago in cui si getta la vallata di Sedilo e dei paesi vicini. E tutto quanto è una finta pace che riposa. Natale si consuma così, tra racconti al passato remoto e silenzi d’intesa, cene luculliane e digiuni forzati. Nessun supermercato aperto, bar chiusi, ristoranti sbarrati. Solo il cimitero e una vasta area archeologica paleocristiana ospitano i nostri passi. Nel pozzo millenario si specchiano le stelle, perché è quasi buio ormai, e bisogna ripartire.

Scendiamo dalla collinetta dove la massiccia torre ci ha mostrato con le sue mani di pietra tempi sovrapposti. Tharros muore qui, respira ancora ma si accascia di nuovo quando la lasciamo, come Marco la uccise in un grigio mattino di vento.

Al molo di Olbia la nave dondola impercettibilmente, il pianista dell’andata ci delizia con la sua arte omicida, ed è già tempo di dormire.

Cara mamma, stiamo tornando. Volevo dirti che è stato breve ma intenso. E che Tharros è morta di nuovo e non ho potuto farci niente, giuro su dio. Ma forse è colpa mia, perdio? ero immobile mentre le navi lasciavano il porto e lei pregava disperata, le sue mani erano strette al petto e la sabbia s’indorava delle sue lacrime. Avrei voluto salvarla davvero ed insegnarle un oblio di speranza, giocarci un po’ come si fa coi bimbi e guardarla ridere per sempre. Tenerla tra le braccia e dirle che senza i suoi occhi non avremmo luce, senza la sua parola perderemmo il canto e senza il suo passo lieve la meraviglia delle strade assenti….

Eh? Ma che dici…

Niente, scusa, ti porto i panni sporchi quando torno. È l’ultima, promesso

 

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