L’Italia è un paese anti-liberale ?

L’Italia è un paese anti-liberale ?

Liberale è chi crede che il libero mercato sia buona cosa, ma non sempre ed ovunque, e che sia un sistema di regole definito storicamente dall’azione pubblica. Liberista invece è chi tende a credere che il privato sia comunque meglio del pubblico (in concorrenza, ma anche no…), e infine anarco-liberista, è chi crede che lo Stato sia all’origine di tutti i mali, e che vada ridotto al minimo indispensabile. (Marco Ponti)

L’Italia è il paese delle migliaia di leggi che vorrebbero regolamentare tutti gli aspetti della vita economica e sociale ma in realtà è la patria degli azzeccagarbugli, dove fatta la legge c’è sempre il modo di aggirarla oppure di non farla funzionare. In passato , ma ancora oggi, sono state fatte leggi importanti e per certi versi innovative che sono restate per più di 10 anni senza regolamento di attuazione per cui la loro applicazione oltre ad essere viziata dall’incertezza era ovviamente esposta al giudizio del Tribunale amministrativo regionale. Era una situazione voluta, soprattutto quando in ambito economico si andavano a toccare interessi consolidati di intere categorie che dalla mancanza di innovazione e dall’immobilismo traevano la loro forza sociale e la loro influenza politica. Oggi ci preoccupiamo, ad esempio, della scomparsa di un tessuto di commercio di vicinato che è indispensabile per la vita e la sicurezza di paesi e città , ma in passato la struttura autoreferenziale del settore ha impedito l’ingresso di nuove energie che non fossero il semplice passaggio generazionale. Come ho già avuto modo di raccontare in un articolo sulla burocrazia di qualche tempo fa (QUI), tutti in teoria sono per la concorrenza e la libertà d’impresa, ma nella realtà si opera in modo esattamente opposto. Ci sono voluti decenni e qualche ministro coraggioso per arrivare ad eliminare le commissioni comunali del commercio e i piani che servivano solo a spendere inutilmente molto denaro pubblico per arrivare a stabilire quanta superficie commerciale poteva essere autorizzata in un comune per le categorie merceologiche “vincolate” e lo stesso valeva per alcune attività artigianali. Erano leggi che si basavano essenzialmente sulla considerazione della stazionarietà del consumatore/cittadino che invece non esisteva più dalla motorizzazione di massa degli anni 60.
Era una legislazione che nello stesso tempo non ha frenato la nascita dei grandi centri commerciali ma in compenso ha impedito o ritardato l’ingresso di una imprenditoria più giovane nel tessuto tradizionale che avrebbe potuto rafforzarlo. Ricordo che anche in quegli anni la gran parte dell’attività commerciali era libera e solo alcune categorie erano sottoposte ai piani di commercio come alimentari, scarpe e abbigliamento e le attività di somministrazione di cibi e bevande. Eppure le commissioni comunali riuscivano a bocciare richieste anche di altre tipologie per il solo fatto che venivano considerate già ampiamente presenti nel territorio comunale oppure semplicemente perchè in commissione ci stava qualcuno che vendeva lo stesso prodotto.

La politica spesso si adeguava ma questo comportava un impoverimento del tessuto commerciale, una mancata concorrenza con possibili vantaggi per i consumatori.Oppure , questi comportamenti, costringevano il richiedente a rivolgersi a chi quell’attività la esercitava( o semplicemente ne aveva la licenza) per rilevarla con costi che molto spesso non avevano nessun rapporto con il reale valore economico. Era una pietra al collo di chi voleva intraprendere una nuova attività per la quale il comune avrebbe avuto il dovere di rilasciare la licenza. A interrompere questo andazzo ci ha pensato qualche ministro coraggioso (Cassese) e qualche Tar che ovviamente annullava o sospendeva i dinieghi comunali con conseguente immediato rilascio dell’autorizzazione. A quel punto il ricorrente più sveglio poteva far causa e chiedere al comune il mancato avviamento che avrebbe potuto comportare per l’amministrazione comunale un esborso non indifferente(dipendeva dall’attività negata). Va anche precisato che la legislazione non prevede la vendita delle licenze( che solo il comune può rilasciare) ma la cessione dell’attività. Allora succedeva che il piccolo negozio di abbigliamento della frazione veniva venduto per una cifra fuori mercato col semplice scopo di trasferirlo nel capoluogo. La forma era salva e tutti erano felici e contenti.

Le forti restrizioni per l’apertura di bar e ristoranti portarono alla cessioni di rami di attività che diventavano nuove imprese. Molti negozi alimentari con le vecchie licenze non erano solo autorizzati alla vendita di alimenti ma anche “alla mescita” fino ad una certa gradazione. Erano due attività distinte nello stesso luogo e la cessione di una delle due non implicava nessuna chiusura ma di fatto la cessione della attività(licenza?) di somministrazione permetteva a chi acquistava di aprire un bar. In tutto questo non c’era niente di illegale ma fa capire come si creasse un mercato distorto e non aperto all’iniziativa imprenditoriale ma premiante solo le rendite di posizione. Una legislazione di questo tipo era un vantaggio solo per pochi mentre la liberalizzazione intervenuta negli anni è sicuramente meno penalizzante. Gli unici criteri che devono valere sono quelli igienico-sanitari e quelli urbanistici, limiti numerici e distanze non hanno senso in un mercato moderno. Pensare che possa esistere un’uguaglianza totale nelle condizioni di partenza è abbastanza utopico ma compito dello stato e della pubblica amministrazione è quello di operare per raggiungere questo obiettivo.
Colui che ha un’attività di valore dovuto ad anni di lavoro non avrà problemi nella cessione mentre vengono penalizzati coloro che pensano di poter godere di una posizione di rendita come avviene in ogni mercato chiuso. Ma ci sono ambiti in cui le autorizzazioni possono essere limitate? Uno di questi è il settore radiotelevisivo anche se con l’arrivo del digitale si sono moltiplicate le opportunità. Le frequenze sono limitate e allora compito dello Stato è quello di evitare che si creino posizioni dominanti se non di monopolio e in Italia le leggi che sono state fatte hanno pensato più a tutelare gli interessi del monopolista pubblico(Rai) e di quello privato(mediaset) che non a garantire un’effettiva pluralità che si è comunque fatta strada grazie alle nuove tecnologie. Anche se ormai stiamo assistendo al predominio di una logica darwiniana per cui il pesce grosso sta piano piano inglobando tutti gli altri. I canali sono tanti ( tantissimi inutili) ma controllati ormai da poche società. Questo non avviene solo nella televisione ma anche nel settore radiofonico che per molti anni è stato snobbato dai grandi gruppi nazionali come Mediaset e che invece negli ultimi tempi vede acquisizioni di emittenti , anche interregionali, e di frequenze che rischiano di appiattire un settore che invece ha mantenuto una importante molteplicità di proposte e una certa attrattività pubblicitaria.

Alcune società pensano di raccolgliere pubblicitariamente con le radio, che hanno un costo di gestione inferiore, quello che stanno perdendo nel versante televisivo e soprattutto verso internet. Anche in questo caso vale quello che ho detto per il commercio: le licenze e le frequenze sono dello stato e non si potrebbero vendere, ma si possono cedere attività e impianti e così succede che qualcuno possa cedere un impianto che in realtà corrisponde ad una frequenza e continuare a trasmettere su altre. In alcuni casi per qualche emittente è l’unico modo per sopravvivere ma si creano situazioni di sleale concorrenza. Ci sono anche casi di emittenti che hanno ceduto frequenze (impianti o attività) incassando un bel po’ di soldi per poi, dopo qualche tempo, riprendere a trasmettere grazie all’intervento di qualche ente locale che , per legge, può richiedere una frequenza libera per pubblico interesse. E’ tutto perfettamente legale ma si creano delle situazioni che penalizzano coloro che magari in quel territorio ci lavorano da anni anche con grossi sacrifici e non cedendo alle lusinghe commerciali dei grandi gruppi. Anche in questo campo l’arrivo del digitale potrebbe limitare il rischio di nuovi monopoli ma c’è anche la preoccupazione che questo possa comportare un incremento dei costi a cui non corrispondono poi adeguate entrate pubblicitarie e quindi penalizzando le piccole realtà rispetto alle società più strutturate. Alcune cose però potrebbero essere proposte per limitare la falsa concorrenza: una vera legge antitrust su scala nazionale e regionale; limitare l’erogazione di contributi statali alle sole emittenti comunitarie che non dovrebbero programmare pubblicità se non in misura molto limitata; vietare alle emittenti lo splittaggio pubblicitario per cui emittenti nazionali, regionali o provinciali effettuano una raccolta a prezzi stracciati secondo le varie zone operando una concorrenza sleale nei confronti di chi sceglie di avere una vera dimensione locale; contributi sulla base di bandi annuali solo per l’acquisto o la modernizzazione tecnologica; favorire l’ingresso nel mercato anche di soggetti no profit che vogliono promuovere emittenti specializzate o comunitarie utilizzando frequenze disponibili; vietare la vendita della singola frequenza o impianti ma solo la cessione completa di attività; semplificare le norme sul diritto d’autore, evitare la moltiplicazione di soggetti nel settore ed eliminando, soprattutto per le piccole emittenti, oneri piuttosto gravosi.Dato che sono favorevole all’abolizione dell’ordine dei giornalisti togliere le norme che impongono obblighi occupazionali dal sapore corporativo. Viste le difficoltà in cui versa l’informazione cartacea e per favorire l’emittenza locale ampliare la possibilità di deduzione fiscale delle spese pubblicitarie in questi settori.


Non sempre però un’impostazione liberale dell’economia ha dato i vantaggi che dovrebbero derivare dalla concorrenza, vedi ad esempio il settore dell’energia ed in parte anche nei trasporti nel nostro paese, dove le norme europee vengono applicate “all’italiana” e le autorità di garanzia non funzionano o sono fortemente condizionate dalla politica. In troppi casi il monopolio pubblico si è trasformato in predominio privato con forti limitazioni per l’accesso di nuovi soggetti. “Chi può sapere che in assenza di concorrenza quei beni o quei servizi sarebbero stati più costosi o di qualità inferiore? Anche l’esempio attuale dei prezzi dell’energia, che risulta più costosa se prodotta da soggetti privati non regolati, non consente di leggere l’effetto-minaccia noto agli economisti come “contendibilità”: in un libero mercato spesso basta appunto la minaccia dell’entrata di nuovi soggetti per “spaventare” l’impresa dominante e renderla più efficiente, anche se dominante spesso rimane.”(Marco Ponti) Ci sono comunque gli articoli del titolo III della Costituzione che dovrebbero essere il faro di ogni provvedimento legislativo in campo economico a partire dall’art.41.

leonardo romagnoli

10.10.17

 

Art. 41
L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali

art.42
La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.

La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti

La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.

Art.43
A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.

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