Gli immigrati nella campagna elettorale

Gli immigrati nella campagna elettorale
12 febbraio 2018
www.rivistailmulino.it

I terribili fatti di Macerata non hanno solo riportato nel modo peggiore possibile il tema dell’immigrazione al centro del dibattito politico. Hanno anche fatto riemergere il limite ormai cronico del dibattito pubblico sull’immigrazione in Italia, del tutto incapace di evitare di infilarsi immediatamente nel tunnel delle contrapposizioni frontali e ideologiche. Detto molto semplicemente, il modo in cui si discute in Italia di questi temi richiede una previa presa di posizione. O ci si dichiara a favore dell’abbattimento di tutte le frontiere o ci si dichiara a favore della fortezza Europa. I fatti tragici e odiosi di Macerata sono stati immediatamente inclusi in questo schema a cui nessuno, tanto meno in campagna elettorale, sembra voler rinunciare. In questo modo questioni complesse come le espulsioni di stranieri senza titolo di soggiorno, i reati d’odio, la partecipazione degli immigrati ai reati (non solo nella veste di autori, ma anche in quella di vittime) sono schiacciate in uno schema interpretativo secondo cui sarebbe, già in corso o comunque imminente, uno scontro frontale tra razzisti e antirazzisti.

Questa definizione della situazione – al momento sposata da gran parte dei mezzi di comunicazione di massa e da una parte delle forze politiche – è pericolosa e, peggio ancora, fuorviante rispetto al bisogno che abbiamo di vedere più chiaro quanto sta accadendo e di avere una chiave di interpretazione che vada al di là di una scivolosa contrapposizione ideologica.

Forse solo chi segue le rilevazioni sull’opinione dei cittadini ha chiaro che da qualche tempo l’Italia detiene un vero e proprio primato, non molto invidiabile per la verità, tra i Paesi europei. In Italia i livelli di ostilità verso gli stranieri sono, a differenza di quanto accadeva ancora qualche anno fa, i più elevati d’Europa, perfino se confrontati a quelli, decisamente alti, che si registrano in alcuni Paesi dell’Europa orientale. Il Pew Research Institute ha pubblicato, molto prima dell’inizio della campagna elettorale, i risultati di un’indagine comparata europea da cui si ricava che in Italia oltre la metà dei cittadini, per la precisione il 53%, pensa che la presenza di “persone di razza, etnia, nazionalità differente da quella italiana contribuiscano a rendere questo Paese un posto peggiore”, contro rispettivamente il 41% e il 40% di Ungheria e Polonia – Paesi appartenenti al vituperato gruppo di Visegrád – contro il 22% della Spagna, il 31% del sovranista Regno Unito, il 24% della Francia più volte colpita dagli attentati del terrorismo di matrice islamica. A differenza di quanto si potrebbe supporre, questo primato non dipende dalle dimensioni della presenza straniera. In primo luogo perché l’Italia non ha più immigrati di Paesi come la Francia o il Regno Unito. In secondo luogo perché sappiamo che l’idea che gli immigrati siano un peso per il Paese non varia in relazione alle dimensioni della presenza straniera. In passato l’insofferenza verso gli immigrati era diminuita anche quando gli stranieri aumentavano e, tanto per essere chiari, da qualche anno le cifre dell’immigrazione sono stabili. Infine perché questo primato di ostilità riguarda anche gruppi tutt’alto che numerosi. Ad esempio, l’Italia è il Paese con il livello più alto di ostilità nei confronti dei Rom: 82% della popolazione dichiara di essere sfavorevole o molto sfavorevole alla loro presenza, numero che sopravanza di gran lunga perfino Ungheria, Romania, Spagna, dove i numeri relativi alla presenza di popolazioni rom sono molto più elevati. Inutile dire che siamo al primo posto in Europa anche per quota di persone che dichiara di essere sfavorevole o molto sfavorevole alla presenza di musulmani (con buona pace di chi si ostina a dire che in Italia i musulmani non sono un problema per nessuno): 69% contro il 29% della Francia e il 28% del Regno Unito. Confesso di far quasi fatica a credere a questi numeri.

Anche sui comportamenti che esprimono ostilità abbiamo informazioni poco confrontanti. Il caso di Macerata è però tutt’altro che il primo reato d’odio in Italia, come è stato incautamente detto da qualcuno con la memoria corta. Se prendiamo per buoni i dati pubblicati dall’Osservatorio dell’Ocse, che raccoglie a sua volta dati trasmessi dal ministero dell’Interno italiano, i reati dovuti all’odio sono cresciuti ininterrottamente dai 71 del 2012, ai 473 del 2013, agli oltre 500 del biennio successivo fino ad arrivare a quota 800 nel 2016. Si tratta di numeri da considerare con grandi cautele per diversi motivi che non c’è spazio qui per approfondire, ma tuttavia è chiaro che siamo ben lontani da un caso unico.

Dunque in Italia una parte tutt’altro che trascurabile dei cittadini ha cominciato a vedere nella presenza straniera un problema alla cui soluzione attribuisce la magica fine di tutti i problemi. Questa idea rischia di imprimere una vera e propria svolta in una parte dell’opinione pubblica. I suoi effetti si erano per altro già visti all’opera nella vicenda della legge sul cosiddetto ius soli, dove si è assistito a un cambiamento della cui portata pochissimi si sono resi conto. Salvo sviste mi pare lo abbia osservato forse il solo Nando Pagnoncelli. Fino a qualche anno fa neanche i più critici nei confronti dell’immigrazione, soprattutto irregolare, mettevano in discussione il principio secondo il quale i nati in Italia da coppie di straniere stabilmente insediate e integrate dovessero ricevere automaticamente la cittadinanza. I dati ci dicono invece che, a partire circa dal 2017, per la prima volta a essere favorevole al cosiddetto ius soli è una minoranza, e che solo in una versione decisamente moderata questo principio avrebbe potuto ancora aggregare consensi. Nel dubbio, non si è potuto far altro che ritirare la proposta di riforma di uno degli impianti giuridici più sbilanciati verso lo ius sanguinis del mondo.

Lasciare che il dibattito pubblico assuma la forma di uno scontro frontale tra eserciti portatori di valori inconciliabili rischia di accrescere le possibilità che si passi definitivamente a uno schema basato sulla contrapposizione, per molti comoda e rassicurante, tra razzismo e antirazzismo. Colpisce, per esempio, che nei giorni successivi all’attacco razzista – si badi bene non al brutale omicidio e scempio di una ragazzina indifesa di cui al momento sono accusati alcuni cittadini nigeriani – la Lega abbia registrato una crescita nei sondaggi, la prima dopo qualche giorno di continua discesa, mentre il Pd abbia registrato una contrazione delle stesse proporzioni, anche qui la prima dopo qualche giorno di leggera risalita (mi baso sui dati pubblicati nel sito dei sondaggi politico elettorali della presidenza del Consiglio dei ministri). Segno che la politicizzazione del razzismo paga elettoralmente, almeno sul breve periodo e almeno nei sondaggi.

Lo schema razzismo/antirazzismo è fatto apposta per distogliere lo sguardo dalla realtà. Ma se si facesse lo sforzo di non lasciarsi distrarre apparirebbe chiaro che in alcuni insediamenti sociali è presente un forte disagio, che questo disagio sembra crescere e che si stia rapidamente facendo strada una specifica definizione della situazione che attribuisce tale disagio all’immigrazione. Affrontare questa realtà richiede un atteggiamento piuttosto diverso da quello oggi dominante. Occorrerebbe smettere di fingere che sia possibile risolvere problemi complessi e questioni strutturali con la bacchetta magica (l’espulsione di un numero di immigrati irregolari indefinito, ma abbastanza alto da soddisfare anche i più esigenti), o con norme o sanzioni severe contro entità decisamente sfuggenti come “il razzismo”. A meno che davvero qualcuno non pensi che in Italia il 53% della popolazione sia razzista. Meglio sarebbe astenersi dal diffondere l’idea che non sia possibile, invece, affrontare politicamente i problemi sociali che questa specifica congiuntura pone. Ma questo esigerebbe dalle forze politiche sforzi per avanzare proposte realistiche, che in quanto tali sarebbero solo migliorative piuttosto che risolutive, e per provare addirittura a metterle in pratica, anziché inseguire facili consensi. Ma forse quel che già è difficile chiedere in tempi normali diventa proprio impossibile da pretendere in campagna elettorale.

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