Flat Tax e povertà

Flat Tax e povertà

In un programma dedicato alla letteratura del sud degli Stati Uniti trasmessa da Rai 5 ad un certo punto il conduttore incontra lo scrittore Eddy L. Harris autore di importanti opere sui neri americani, sulla segregazione e sulla riscoperta delle radici africane e la discussione dalla scrittura passa alla politica. L’intervista è stata realizzata a New Orleans qualche anno dopo l’uragano Katrina con ancora un terzo della popolazione che non era rientrata nelle proprie abitazioni e una situazione di degrado, in alcune zone periferiche , ancora molto diffusa. Nonostante questo il sogno americano, dice Harris, resta un filo conduttore e tutti possono credere che un giorno saranno ricchi, anche se nel paese ci sono 36 milioni di poveri. Si fa quindi credere che “le tasse sono una brutta cosa, il socialismo è una brutta cosa(…) e se puoi convincere – dice Harris- i poveri che le tasse sono una brutta cosa e un giorno saranno ricchi , voteranno contro i propri interessi”.

L’analisi di Harris risale ad alcuni anni prima dell’elezione di Trump ma è illuminante di una situazione che si ripete anche nel nostro paese con le assurde proposte sulla flat tax o aliquota unica.

La flat tax è il classico caso di Robin Hood alla rovescia non a caso non viene applicata da nessuna parte se non in Russia e qualche ex paese comunista dove in precedenza era inesistente un sistema fiscale progressivo.

Neppure negli Stati uniti di Reagan o di Trump , dove però le recenti scelte di riduzione delle aliquote fiscali a favore di imprese e ricchi e il contemporaneo aumento delle spese militari avranno delle ripercussioni non solo sul debito pubblico ma sui servizi per le fasce più deboli.
I giornali italiani mentre hanno riportato con puntualità gli effetti delle riduzioni sulle imprese (tanto che più di un esponente delle varie forze politiche italiane ha dichiarato di volersi ispirare ai provvedimenti trumpiani anche per il nostro paese) si sono stranamente dimenticati di riportare l’elenco dei provvedimenti che verranno attuati per bilanciare le perdite delle casse pubbliche americane. Provvedimenti che tolgono ai poveri per dare ai ricchi e alle imprese . 200 miliardi di dollari di tagli in dieci anni ai Food Stamps , i buoni governativi che permettono a circa 40 milioni di americani poveri o disoccupati di mettere qualcosa in tavola; 266 miliardi verranno tolti al Medicaid (assistenza medica per i poveri) e soprattutto si punta a smantellare l’Obamacare, la riforma sanitaria che ha permesso a milioni di americani di avere un’assicurazione sanitaria sovvenzionata, che potrebbe comportare un risparmio di 700 miliardi dollari per le casse pubbliche.

“Guarda caso , la somma di queste tre voci dà circa 1.100 miliardi di dollari, ovvero l’importo delle riduzioni fiscali a vantaggio dei milionari e delle multinazionali approvato nel dicembre scorso”(F. Tonello). Mentre l’aumento delle spese militari verrebbe finanziato con tagli consistenti nel bilancio statale per la protezione dell’ambiente (-33%), la ricerca scientifica (-30%), la diplomazia (-27%) e per l’Army Corps of Engineers (-22%) , una specie di protezione civile.

Perfino tra i repubblicani non mancano i perplessi forse pensando alle elezioni di medio termine di novembre più che ai contenuti delle proposte di bilancio.

In Italia l’argomento tasse , insieme alle migrazioni, occupa il centro della contesa elettorale dove ogni giorno vengono elencate proposte che non hanno nessuna copertura finanziaria e faranno aumentare il debito pubblico, come sempre a carico delle generazioni future.(La grande massa franosa incombe sul Paese, ma è meglio non parlarne. Quasi 2.300 miliardi di debito pubblico non sono una bazzecola. A testa fa quasi 40mila euro, come a dire che a una famiglia di 4 persone ne toccherebbero più di 150mila. Nel 2016 per pagare gli interessi di questo debito lo Stato italiano ha speso 66 miliardi, il 4% del Pil. B.Gui).
In tutta questa esibizione di giochi di prestigio ci sono poi gli aspetti ridicoli come un condannato in via definitiva per frode fiscale e incandidabile che parla di riforme fiscali in tutti salotti televisivi quando in qualsiasi paese del mondo, che non sia una “repubblica delle banane”, sarebbe bandito dalla scena politica e nei tanto ammirati Stati Uniti starebbe addirittura in carcere. Vi immaginate un condannato per maltrattamenti e abusi su minori che viene invitato a parlare di adozioni in televisione? Non sarebbe accettabile. Eppure sembra che gli italiani soffrano di una grave forma di alzehimer politico in senso generale. Infatti, a parte alcuni gruppi che non hanno mai governato nel nostro paese, alcuni dei contendenti hanno guidato il paese anche per circa 10 anni nel recente passato e non hanno realizzato nemmeno una delle proposte che oggi vengono avanzate anche in materia fiscale, anzi , in alcuni casi, hanno fatto l’opposto.

Tutti sentiamo il bisogno di una semplificazione, ma l’applicazione di un’aliquota unica ( anche se non ci capisce a che livello) comporta soltanto un vantaggio enorme per i redditi più alti mentre per la parte più consistenti dei contribuenti cambierebbe poco e in molti casi ci sarebbe un netto peggioramento perché la flat tax comporta l’abolizione di tutte le detrazioni e deduzioni fiscali o degli incentivi che sono veramente molto significativi per le famiglie con redditi medi e bassi. Oltre a questo , la diminuzione delle entrate statali comporterà un taglio alle spese di eguale consistenza per evitare di aumentare il debito ed è inutile parlare semplicemente di sprechi perchè è un ritornello senza sostanza mentre in questi anni i tagli hanno riguardato le risorse destinate ai comuni (con aumento dell’imposizione locale) e a settori fondamentali come istruzione e sanità.
“Per avere il senso delle proporzioni bisogna focalizzare l’ordine di grandezza di ciò che lo Stato muove in termini economici. In numeri assoluti nel 2016 (ultimo anno di cui disponiamo di dati completi) il Pil italiano è stato pari a 1.672 mila milioni di euro. Sempre nel 2016 il Ministero dell’Economia rende noto che le entrate complessive sono state pari a circa 559 mila milioni, pari al 33% del Pil, e le uscite invece sono state pari a 603 mila milioni, cioè al 36% del Pil. Quest’ultime tutte improduttive? Molte di queste spese rappresentano una grandezza significativa nei rispettivi comparti. Quelle per il personale ammontano a 112 mila milioni, cioè il 6,7% del Pil (l’azienda di gran lunga con il maggior numero di occupati), quelle per acquisto di beni 96 mila milioni, cioè 5,7% Pil, i trasferimenti ad altri soggetti (prevalentemente famiglie, imprese e interessi passivi) quasi 272 mila milioni, cioè 16% del Pil. Voci che complessivamente sono andate aumentando negli ultimi anni. Nel solo triennio 2015-2017 sono passate da 595 a 619 mila milioni, con un incremento del 4%. A tutto ciò vanno aggiunte entrate e spese degli enti locali. L’ultima relazione finanziaria della Corte dei conti con riferimento al 2015 sostiene che le amministrazioni locali sono riuscite a «neutralizzare la significativa contrazione di trasferimenti» operata dallo Stato, aumentando il proprio grado di autonomia finanziaria. Ne consegue che sono aumentate le imposte locali a fronte di un relativo contenimento del taglio ai servizi forniti. A conferma l’Istat ammette che per i soli Comuni le entrate nel 2015 sono aumentate del 4%, raggiungendo gli 86 mila milioni. Le entrate fiscali locali (Regioni, Province e comuni), secondo la Cgia di Mestre, costituiscono oltre il 20% delle imposte complessive. Anche in questo caso alle entrate corrispondono spese non riconducibili banalmente a sprechi. Aziende e partecipate con funzioni pubbliche, assistenza sociale, manutenzione, stipendi per i dipendenti.”(Bertorello/Corradi)

Quindi se si vuole ridurre la pressione fiscale bisogna dire con chiarezza agli elettorali quali saranno le conseguenze affinché “non votino contro i loro interessi”.

Ma il vero problema è che nessuno sa di cosa si stia parlando a partire dal livello dell’aliquota (15% ,23% o altro?).
Per cercare di mitigare l’effetto tutto a favore dei redditi alti c’è chi pensa di escludere i contribuenti più ricchi dai benefici del servizio sanitario universale oppure per la popolazione più povera , oltre alla non tassazione fino a 10.000 euro, l’istituzione di un’ imposta negativa per cui chi è sotto una certa soglia di reddito non solo non paga ma riceve un trasferimento dallo stato.
Il problema è che sotto i 15.000 euro ci sono quasi 19 milioni contribuenti italiani (45,96%) e altri 17 milioni sono compresi tra 15.000 e 35.000 euro(42,75%). Tra i 55 mila e i 100 mila si trova solo il 10,24% dei contribuenti e sopra i 100 mila euro si sta solo l’1,04% .
Oltre il 50% del gettito fiscale arriva dalla fascia 20.000/55.000 con quasi il 34% fino a 35.000 e il 16,7% da 55 a 100 mila euro e il 9,62% da 100 a 200 mila euro , quota questa simile a quella versata da chi si trova tra i 15 e 20 mila euro.

Secondo Luca Ricolfi la flat tax risponde comunque ai criteri di progressività previsti dalla costituzione(lasciando invariate però le deduzioni fiscali) perché, fissata l’aliquota al 20% e l’area no tax a 10.000 euro, chi ha un reddito di 20.000 euro pagherà 2000 euro (ovvero il 10%) mentre chi ha 100.000 euro pagherà 18.000 euro (ovvero il 18%). Ragionamento che potrebbe sembrare logico ma che è determinato solo dall’area no tax mentre l’incidenza sui redditi è completamente diversa. Senza contare le detrazioni e deduzioni che per un reddito fino a 20.000 euro portano la tassazione attuale vicina a quella della flat tax. Con il 20% chi ha meno guadagnerebbe 2.800 euro mentre chi ha 100.000 euro guadagnerebbe quasi 8.000 euro rispetto alle aliquote attuali.

Per impedire che i redditi medio bassi paghino più di oggi le proposte di alcune forze politiche parlano di deduzione di 3000 euro per componente familiare o di 12.000 euro(che diventerebbe l’area no tax).Secondo i calcoli de lavoce.info con queste proposte e altre ad esse collegate ci sarebbe un calo rispetto all’Irpef attuale tra 58 e 90 miliardi di euro che richiederebbe tagli consistenti sulla spesa pubblica italiana che , al di là delle affermazioni propagandistiche, è invece in linea con quella degli altri paesi europei importanti oppure l’applicazione di tassazioni indirette che , da sempre, gravano di più sulle fasce deboli e medie.
Sarebbe più sensato parlare di una diversa distribuzione delle aliquote che attualmente penalizzano soprattutto il ceto medio nella fascia 28-55000 euro ( + 10% rispetto a quella fino a 28 mila e – 3% rispetto a quella fino a 75.000). Istituendo un nuovo scaglione oppure ampliando la fascia del 27% fino a 35.000 euro con vantaggi più consistenti per i ceti più colpiti dalla crisi economica.(1)

Intanto in questi ultimi anni l’aliquota sui redditi di impresa è passata dal 27,5% al 24% quasi come quella dei redditi fino a 15.000 euro.

la sostanza base della flat tax è una redistribuzione del carico fiscale a favore dei redditi più alti. Una evidente politica fiscale liberista che non aiuta i precari, il ceto medio e non lotta l’evasione, anzi incoraggia quella di entità unitaria minore e diffusa. Dopo le elezioni si può non toccar nulla perché il contabile ci ricorda che non c’è copertura. Ma è un’altra storia che riguarda l’aritmetica delle scelte politiche, non l’economia politica. (Marani/DiMaio-lavoce.info)

Allora la politica è impotente di fronte ai numeri e alle compatibilità economiche e alle regole europee?

Al contrario, resta aperta una grande sfida, che non è fatta di colpi di scure destabilizzanti né di cordoni della borsa da mollare, ma di un lungo e attento lavoro di identificazione e decurtazione dei privilegi, di riassorbimento delle inefficienze, di contenimento dell’evasione, di riorientamento e razionalizzazione della spesa, accompagnato da un progressivo alleggerimento del prelievo fiscale che permetta ai cittadini di beneficiare anche in questo modo dei miglioramenti via via realizzati.(Benedetto Gui – avvenire)

E soprattutto c’è da ridurre la povertà che in Italia negli ultimi anni è aumentata interessando anche una quota di lavoratori che non percepiscono un reddito sufficiente al mantenimento di una vita dignitosa delle proprie famiglie.

Il 20 ottobre del 2010 il Parlamento europeo approvò una risoluzione contro la povertà che dovrebbe essere ancora oggi un punto di riferimento delle politiche nazionali e invece molte delle indicazioni in essa contenute sono restate sulla carta.
1)sottolinea la necessità di misure concrete che sradichino la povertà e l’esclusione sociale, esplorando strategie di ritorno all’occupazione, favorendo un’equa ridistribuzione del reddito e della ricchezza, garantendo regimi di reddito minimo(…) invita gli Stati membri a rivedere le loro politiche intese a garantire un reddito adeguato, consapevole che la lotta alla povertà presuppone la creazione di posti di lavoro dignitosi e durevoli per le categorie sociali svantaggiate sul mercato del lavoro; ritiene che tutti i lavoratori abbiano diritto ad un’esistenza dignitosa; considera che una politica sociale nazionale presupponga altresì una politica attiva in materia di mercato del lavoro;
26) richiama l’attenzione sul numero crescente di lavoratori poveri e la necessità di affrontare questa nuova sfida attraverso la combinazione di strumenti diversi; chiede che il salario di sussistenza sia sempre superiore alla soglia di povertà; che i lavoratori che, per varie ragioni, restano al di sotto della soglia di povertà ricevano integrazioni non soggette a condizioni e facilmente fruibili; rammenta le esperienze positive negli Stati Uniti riguardo all’imposta negativa sul reddito per portare i lavoratori a bassa retribuzione al di sopra della soglia di povertà;
48)ritiene che la povertà che colpisce le persone che hanno un lavoro riflette condizioni di lavoro inique e invita a concentrare gli sforzi per modificare tale situazione, affinché la retribuzione in generale e i salari minimi in particolare possano garantire un livello di vita dignitoso, indipendentemente dal fatto che siano stabiliti per legge o mediante accordi collettivi;

Sono alcuni punti della risoluzione del Parlamento Europeo a dimostrazione ancora una volta che forse avremmo bisogno di più Europa per risolvere i nostri problemi.

Leonardo Romagnoli

20.2.18

1)In dettaglio, si propone di rimodulare le aliquote e gli scaglioni di reddito così come segue:

  • riduzione di un punto percentuale dell’aliquota sul I scaglione di reddito (fino a 15.000 euro) dal 23 al 22%, e sul II scaglione (dai 15.001 ai 28.000 euro) dal 27 al 26%;
  • aumento dell’aliquota sul IV scaglione (dai 50.001 ai 75.000 euro) dal 41 al 44%, e dell’aliquota sul V scaglione (oltre i 75.000 euro) dal 43 al 47,5%;
  • introduzione di un VI scaglione (tra i 100.000 e i 300.000 euro) con un’aliquota al 55% (modificando, dunque, il V scaglione che comprenderebbe dai 75.001 ai 100.000 euro di reddito);
  • introduzione di un VII scaglione oltre i 300.000 euro di reddito con un’aliquota al 60%.
  • A questo andrebbe legata l’eliminazione delle forme di tassazione separata per consentire una ricomposizione della base imponibile, seguendo il c.d. “comprehensive income principle”, in modo da ricondurre tutte le fonti di reddito alla progressività dell’imposta.
  • Infine, come precedentemente detto, risulta di fondamentale importanza pensare alla costruzione di un sistema impositivo patrimoniale fortemente progressivo che riesca a tenere conto della tipologia e della dimensione dei patrimoni. (Sbilanciamoci.info)

Appendice

GOAL_E_TARGET

Gli obiettivi al 2030

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