“Perché schierarsi è tornato a essere un atto politico”

“Perché schierarsi è tornato a essere un atto politico”

di Michela Murgia

Michela Murgia: Perché schierarsi è tornato a essere un atto politico

Quando ho visto la copertina dell’Espresso della settimana scorsa, con i due volti sinottici di Matteo Salvini, il ministro della Repubblica, e di Aboubakar Soumahoro, il sindacalista dei braccianti schiavizzati nelle campagne, ho pensato: ecco cosa vuol dire schierarsi. È questo che significa l’espressione “Uomini e no”, un titolo che – oltre a riprendere testualmente quello del romanzo di Vittorini del ’45 – vuole affermare che esiste una differenza precisa tra ciò che rientra nella categoria dell’umano e ciò che invece è disumano; occorre stare molto attenti a non dimenticarla quella differenza, perché ci sono condizioni accettando le quali restare umani potrebbe non essere più possibile.

La rete dei sostenitori della linea Salvini davanti a quello schierarsi ha alzato grida belluine: «Avete perso, accettatelo: adesso le cose sono cambiate!». Ma schierarsi non è rifiutarsi di perdere: è pretendere che il gioco si faccia alle condizioni in cui partecipare sarà ancora possibile per tutti. Significa tirare una linea netta tra come è legittimo agire e come non lo è e dire in modo inequivocabile che oltre quel confine non si può e non si deve andare, perché dall’altra parte c’è qualcosa che cambia del tutto le regole dello stare insieme. Non è quindi il conflitto quel che pone il problema, anzi: la differenza di opinioni e il loro continuo confronto sono il Dna dei sistemi democratici. Il cittadino che si sente rappresentato dalle scelte del ministro dell’Interno si fa forte degli indici di gradimento e dichiara dai sondaggi: «La maggioranza sull’immigrazione sta con Salvini, è la democrazia».

In Italia però in questo preciso momento storico non è questione di avere opinioni diverse su questo o quel tema. In gioco non c’è più solo il contarsi, perché la democrazia non è il sistema di governo in cui ci si conta e basta: è quello in cui ci si dichiara d’accordo su un sistema di regole e valori e solo dopo – dentro a quel sistema – ci si conta. Non condividere quelle regole e quei valori e pretendere di essere contati ugualmente è come aspettarsi di giocare a tennis con le regole del calcio.

Il punto non è dunque vincere e perdere, è capire a cosa stiamo giocando. Schierarsi significa affermare che nel gioco del tennis c’è una differenza enorme tra chi mi viene incontro per sfidarmi con la racchetta e chi mi cambia le dimensioni del campo e trasforma la rete in porta. Decidere da che parte stare non significa più tifare questo o quel campione in campo: significa pretendere che la differenza tra i due giochi torni ad essere visibile a tutti quelli che guardano la partita.

Il primo passaggio per farlo è smettere di confondere il merito – cioè cosa è necessario fare – con il metodo, cioè come è legittimo farlo. Il cosa, l’entrare nel merito, è la materia politica per eccellenza. Chi se ne interessa pone domande concrete e sono le domande di tutti. Cosa fare per gestire i naturali fenomeni migratori che per le più varie ragioni portano migliaia di persone sulle nostre coste? Che politiche mettere in atto perché chi non ha una casa possa arrivare ad averla? Che azioni istituzionali sono necessarie perché le persone che perdono il lavoro abbiano le coperture necessarie a non finire per strada finché non ne trovano un altro? Queste non sono domande di destra o di sinistra: le risposte sono interesse comune e sceglierle non è schierarsi, ma esprimere la propria legittima differenza di visione, consapevoli che in una dialettica democratica tra maggioranza e minoranza le visioni possono anche alternarsi nel dare le risposte di governo. Ma Matteo Salvini e il governo che lo sostiene non stanno agendo solo sul cosa rispondere: stanno modificando radicalmente anche le regole del come.

È lì che bisogna ricominciare a tracciare il confine tra uomini e no, perché è lì che si smette di decidere cosa vogliamo fare e si ritorna a scegliere chi vogliamo essere. Oltre quel confine non c’è solo il contrario di quello che pensiamo: c’è il contrario di quello che siamo. Quella linea di demarcazione è andata persa il giorno in cui non è stato più possibile distinguere le differenze tra quello che sta facendo Matteo Salvini oggi e quello che appena un anno fa minacciava di fare Marco Minniti: chiudere i porti e criminalizzare i poveri in arrivo e chi li aiuta, pensando che questo sia il modo per far cessare le migrazioni. Quelli che affermano che non ci sono più la destra e la sinistra non vanno dunque liquidati troppo sbrigativamente come qualunquisti: lo sono di certo, ma in modo implicito stanno dicendo anche che la natura degli attori in campo per risolvere i problemi smette di essere importante nel momento esatto in cui il metodo usato per farlo diventa lo stesso per tutti loro.

Ecco perché schierarsi, tracciare un confine, è tornato ad essere un atto politico essenziale. Farlo è molto meno difficile di come sembra, se sono ancora chiari e condivisi i principi costituzionali, e fare qualche esempio pratico può essere utile. Che si sia di destra o di sinistra, siamo tutti d’accordo che discutere per stabilire quante persone devono entrare e a quali condizioni sia un cosa che ci riguarda tutti, a prescindere dalle differenze nelle soluzioni proposte.
Lasciare 700 persone in alto mare in situazione estrema per ricattare l’Europa appartiene invece alla categoria del come e implica una messa in discussione del metodo stesso del nostro stare insieme.

Nessuno che si riconosca nei principi della Costituzione e nella dichiarazione dei diritti umani può essere d’accordo con l’uso di un’emergenza umanitaria come grimaldello per risolvere un’emergenza politica.

Difendere una scelta simile non è essere di destra o di sinistra: è essere disumani, perché significa disconoscere la dignità delle vite in gioco. Pensare di far valere argomenti come “la maggioranza” per difendere una decisione del genere significa aver accettato la disumanità come strumento di azione politica. Le reazioni sui social e alcuni fatti di cronaca – sempre più numerosi e preoccupanti – ci dicono che è esattamente questo che è successo in questo paese negli ultimi anni ed è la vera sconfitta politica per tutti, qualunque sia lo schieramento di appartenenza. Oggi non è più così chiaro che un conto è ragionare sull’integrazione delle minoranze etniche – processo legittimo che riguarda il cosa – e un altro conto è schedare le persone su base etnica, un inaccettabile come che rovescia le regole che ci proteggono tutti.

Non è più così chiaro che tutti, considerati per differenza, siamo la minoranza di qualcun altro. Il fatto che scelte come queste (o anche il solo ventilarle come possibili in un sistema che invece le nega per principio) possano essere affermate all’interno di un sistema democratico non è la democrazia: è il banco di prova della sua tenuta. Chi lo sta facendo sta lasciando passare l’idea che per affrontare il merito delle cose qualunque metodo sia diventato lecito.

Schierarsi davanti a questo è dunque indispensabile tanto quando opporre un dissenso senza tentennamenti, perché su quell’idea non si gioca più la differenza tra la destra e la sinistra, ma quella tra la democrazia e il fascismo.

L’espresso 24.6.18

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