L’illuminismo perduto

I primi illuministi parlavano arabo

di Siegmund Ginzberg   

« la Repubblica, 12 giugno 2017 

Frederick Starr, L’illuminismo perduto.L’età d’oro dell’Asia centrale dalla conquista araba a Tamerlano.  tr. L. Giacone, Einaudi, pagg. 676.

Due giovani intrecciano una fitta corrispondenza a molte centinaia di chilometri di distanza. Si scambiano opinioni e scoperte scientifiche. Si pongono interrogativi profondi su come è fatto il mondo, su come tutto è incominciato e come andrà a finire. Lo fanno mille anni fa. E con una libertà che da noi non si sarebbe vista per molti secoli ancora. L’uno ha 28 anni. Sa già di tutto. È un geografo, un geologo, un fisico, un matematico, un astronomo, un filosofo. È studioso di religioni comparate, di psicologia, persino musicista. Si chiama Al-Biruni, vive e lavora in quel che oggi è il nord dall’Afghanistan. L’altro, poco più che ventenne, si chiama Ibn-Sina (conosciuto anche come Avicenna). Nato in Khorasan, che oggi sarebbe Iran, al confine con l’Afghanistan, studia a Bukhara, che oggi è in Uzbekistan, si sposta a Gurganj, e infine a Isfahan, in Persia.

La chiamavano “Terra delle Mille città”. Alcune erano allora più grandi e popolose di Parigi, Roma, Pechino o Delhi. Lui si trasferiva da una all’altra, offrendo le sue conoscenze e anche consigli politici (come capitò ad altri geni, ascoltati o inascoltati: da Confucio, a Dante, a Machiavelli). La sua opera più famosa è il ponderoso Canone di medicina, sulla cui traduzione latina è praticamente fondata tutta la nostra medicina. Nella corrispondenza col suo amico espone una teoria dell’evoluzione. Quasi dieci secoli prima di Darwin. I due avevano addirittura postulato l’esistenza in un punto imprecisato tra Atlantico e Pacifico di un continente ancora sconosciuto. Insomma erano arrivati in America 500 anni prima di Colombo, senza neanche mettersi in viaggio, in base a calcoli astronomici.

Fenomeni. Ma non isolati. Ci fu un momento in cui l’Asia Centrale profonda pullulava di menti geniali e poliedriche. Mezzo millennio prima del miracolo del Rinascimento, dei Leonardo, dei Michelangelo e dei Galileo. Una folla di geni: da al-Khwarizmi, che avrebbe dato il nome al termine “Algoritmo”, e che scoprì le orbite ellittiche dei pianeti attorno al Sole, secoli prima di Keplero, agli astronomi di Samarcanda che misurarono l’anno siderale con maggiore accuratezza di quanto poi fece Copernico, e l’inclinazione dell’asse della Terra con precisione pari a quella di oggi. Eccellevano nella scienze come in poesia. Di Omar Khayyam si conoscono le quartine in cui cantava la vita, l’amore, il vino, l’umanità.

Meno si sa che era anche un grande matematico. Fu tra i primi ad accettare i numeri irrazionali e a classificare i 14 tipi di equazioni di terzo grado. Gli viene attribuita persino una teoria delle parallele che prefigura le geometrie non euclidee di Lobacevskij e Riemann, quelle che sarebbero servite ad Einstein per inquadrare le relatività e la “curvatura dell’Universo”. Passano per arabi. È vero, scrivevano in persiano e in arabo (che per un’epoca fu la lingua per eccellenza del pensiero e dei dotti). Ma non erano arabi. Sarebbe più esatto definirli cosmopoliti. Si professavano islamici come gli arabi. Ma in comune con gli arabi di El-Andalus avevano soprattutto tolleranza e rispetto per gli altri. I loro interlocutori erano ebrei, indù, buddisti e cristiani. Si trovavano più a loro agio a discutere con uomini di studio di una religione diversa, piuttosto che con i contrapposti fanatismi in seno alla propria. Erano a modo loro eretici. Anche se nessuno li mandò al rogo, come sarebbe successo invece secoli dopo ai loro colleghi europei. Le corti dei Califfi, gli Imperatori della Cina, e poi i Khan mongoli, si sarebbero contesi studiosi ed esperti appartenenti alle molte e diverse scuole dell’Asia centrale. Formavano una comunità, anzi una “rete liquida” che scambia informazioni e saperi, insomma anticipavano Internet.

Ibn Sina e Al Biruni sono solo i più famosi in mezzo ad una galleria sterminata di personaggi, scoperte, risultati scientifici, opere di ingegno, storie e aneddoti che affollano un bel libro di Frederick Starr, ora tradotto da Einaudi. Si intitola L’illuminismo perduto.

Sottotitolo: L’età d’oro dell’Asia Centrale dalla conquista araba a Tamerlano. È quasi un’enciclopedia: 700 pagine. L’autore è uno studioso serio e molto brillante, che aveva iniziato la sua carriera come archeologo in Turchia e in Persia. Insegna alla Johns Hopkins, ha presieduto l’Aspen Institute, è uno dei massimi esperti mondiali di Asia Centrale. Al pari dei suoi soggetti di studio, coltiva interessi poliedrici. È anche un musicista e ha scritto una strepitosa storia del jazz in Unione sovietica.

L’illuminismo nel titolo si riferisce a un’altra specialità in cui gli intellettuali dell’Asia Centrale eccellevano a cavallo tra il primo e il secondo millennio: la compilazione di grandi compendi dello scibile umano, anticipando Diderot e gli encyclopédistes nel secolo dei Lumi. La loro produzione rivaleggiava in quantità con i libri sacri dell’India e gli annali della Cina, superava l’analoga produzione europea nel Medioevo. Ma è andata in gran parte perduta. Delle 180 opere di Al Biruni ne restano 22, di cui gran parte ancora inedite, di Ibn Sina ne sopravvivono circa 200 su 400. Ibn Sina e Al Biruni li avevo incontrati, se così si può dire, per la prima volta in Iran, quarant’anni fa. Me ne parlava, nella lunghe serate di coprifuoco a Teheran, un estro- so collega giornalista, Pietro Buttitta, fratello del poeta, e in quanto siciliano passionalmente interessato all’eredità islamica.

Nelle librerie di Teheran si potevano ancora reperire volumi di una serie di reprint anastatici di classici sull’Iran, sponsorizzati dalla sorella dello Scià. Unico difetto: erano deturpati da pacchiani ritratti di Reza Pahlavi. Qualche anno dopo avevo percorso in lungo e in largo l’Asia centrale cinese. Fu per me la scoperta di una terra magica, in cui il tempo pareva essersi fermato a molti secoli fa. Nel Xinjiang, il Turkestan cinese, avevo ritrovato le arguzie senza temo di Nasreddin Hodja, l’amore per la vita, la danza e il vino, i tappeti di Kashgar, i meloni, le angurie e altri sapori della mia infanzia, e anche qualcosa della ferocia della Turchia in cui sono nato.

Nel frattempo gli “Stan” (il Turkestan cinese, gli ex sovietici Kazakhstan, Kyrgyzstan, Uzbekistan, Tajikistan, Turkmenistan, ma anche Afghanistan, Pakistan e Iran) nell’immaginario occidentale sono ridiventati il buco nero del mondo. Malgrado uno sviluppo talora impetuoso, le contrade dove una volta vivevano i grandi geni ora evocano, ben che vada, il kitsch dell’esilarante Borat di Sacha Baron Cohen. Se no, di peggio: oscurantismo, ignoranza, burqa, taliban, malavita, terrorismo. A Mosca gli immigrati dall’Asia centrale ex-sovietica sono i più malvisti. Così come sono disprezzati a Pechino, temuti come mafiosi o terroristi gli uighuri originari dal Xinjiang. Salvo poi corteggiare gli Stan (e i loro dittatori) per farci passare le future magnifiche autostrade delle Vie della Seta.

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