L’euro come instrumentum regni

22 Giugno 2018 – Giorgio Arfaras

L’euro come instrumentum regni

Nella Grecia classica sorge l’idea che esiste un sistema (la retorica) in grado di rendere persuasive le argomentazioni (la logica), idea che matura con il sospetto (dei sofisti) che la verità coincida con l’affermazione più convincente. Nel mondo d’oggi, con il diffondersi della convinzione che le teorie scientifiche siano poco più che delle opinioni mascherate, alcuni pensano che una teoria possa valere anche se non è vera, purché sia utile, ossia se avrà dei seguaci. Una teoria vera anche se è utile, è sempre difficile da dimostrare, e perciò avrà scarso seguito. Una teoria anche falsa, invece, se è facile da dimostrare e se è utile, si diffonderà facilmente.

La vicenda dell’Euro che sostituisce la Lira e penalizza l’Italia mostra il punto, quello delle idee sia sbagliate sia non supportate dai fatti che si diffondono facilmente. Si ha chi confronta il periodo di ventennale andamento modesto dell’economia italiana con l’arrivo dell’Euro. Si ha così una coincidenza temporale che diventa un rapporto di causa effetto. La crisi, alcuni argomentano, ha come causa maggiore la moneta unica, che, impedisce l’uso del bilancio pubblico per rilanciare la domanda interna, oltre ad impedire le svalutazioni che in passato alimentavano la crescita trainata dalla domanda estera.

Gli avversari dell’Euro non dicono perché la classe dirigente italiana si decise per l’Euro, come se la scelta fosse stata frutto del caso o di un complotto. La spiegazione, invece, è che l’Italia aveva una base industriale più che decente, ma era penalizzata dagli alti tassi di interesse, tassi maggiori di quelli degli altri Paesi sviluppati. Il livello dei tassi dipendeva dall’inflazione corrente, che aveva raggiunto dei picchi intorno al venti per cento, ma che normalmente era intorno al cinque per cento, e dall’incertezza intorno al suo corso futuro. Il denaro alla fine costava più che in altri Paesi, che avevano un’inflazione di molto inferiore. Ciò che penalizzava non solo l’industria, ma anche le famiglie con i mutui, e il Tesoro con gli interessi sul debito.

Vincolando il cambio, prima con i vari “serpenti”, e poi con l’Euro, l’inflazione non avrebbe potuto che scendere, perché sarebbe mancato lo sfogo della svalutazione. Inoltre, una volta che si fosse vincolato il bilancio pubblico al solo finanziamento con obbligazioni, ossia senza emissione di moneta, l’inflazione non avrebbe potuto che scendere. Allora i salari crescevano più della produttività. In diversi momenti, man mano che crescevano i differenziali di inflazione da costi, le merci italiane diventavano meno competitive, e dunque si era a un bivio: o si fermava la crescita salariale, o si investiva in tecnologie che avrebbero protetto la crescita del costo del lavoro. C’era una terza opzione. La svalutazione della Lira. Questa era la più semplice delle soluzioni, perché le merci tornavano temporaneamente appetibili, mentre non si toccava la dinamica salariale, ovvero si lasciavano intatte le “relazioni industriali”, e perciò non era nemmeno richiesto – almeno nel breve termine – che tecnologia salisse di livello.

La decisione di abbandonare la Lira ha poi penalizzato l’Italia? Sul versante del costo del debito pubblico e con gli effetti a cascata dei costi del credito e nei mutui, non si vede la penalizzazione. Quando nel 1996 è presa la decisione di abbracciare l’Euro il tasso medio all’emissione (la media del tasso dai BOT a scadenza più breve fino a quello del BT a scadenza più lunga) era dell’otto e mezzo per cento. Nel marzo del 2018 il tasso medio all’emissione è stato inferiore all’uno per cento. Neppure durante la crisi del 2011 e 2012 il tasso medio all’emissione (da non confondere con i picchi dello spread sui BTP decennali) è schizzato troppo in alto, perché si era assestato intorno al tre e mezzo per cento. Per confronto ai tempi della crisi precedente, quella del 1992, il tasso medio all’emissione era intorno al quattordici per cento. Anche sul versante della competitività con l’estero non si vede la penalizzazione. Le esportazioni sono cresciute dal fondo della crisi del 2009 del quarantacinque per cento, a fronte di un PIL cresciuto nello stesso periodo meno del due per cento. Questa considerevole crescita delle esportazioni è stata di qualità? La qualità la si misura con il potere di acquisto delle esportazioni. Quanto si importa per unità di esportazioni: se esporto solo ortofrutta, allora non potrò che importare una quantità limitata di medicine. Il potere di acquisto delle esportazioni italiane è cresciuto dal minimo del 2009 del venticinque per cento.

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