I monoteismi e la favola dei tre anelli

I monoteismi e la favola dei tre anelli 
di Michele Martelli

Si è svolto nei giorni scorsi a Città di Castello (Perugia), promosso da “L’altrapagina”, ardita e meritoria rivista mensile religiosa, politica e culturale, fondata da don Achille Rossi, un convegno nazionale di studi, il XXXI della serie, organizzato e diretto dallo stesso don Achille, sul tema “Tre monoteismi in dialogo. Ebraismo, cristianesimo, islam”. Relatori: Vito Mancuso, noto teologo e scrittore, Shahrzad Houshmand Zadeh, docente iraniana di teologia islamica alla Sapienza, Gianni Vacchelli, biblista e cultore di studi danteschi, e Giovanna Micaglio Benamozegh, membro della Comunità ebraica di Roma.

Non voglio tracciare qui un forse noioso resoconto del convegno, che è stato sicuramente ricco e stimolante, ma limitarmi ad estrarne qualche tema, su cui riflettere autonomamente. Ammesso, per pura ipotesi, che oggi, nel mondo secolarizzato e globalizzato di oggi, non ci sia più posto per conflitti e diatribe teologiche, tipiche di altri tempi, su quale sia la vera fides e la vera religio, ne consegue che le religioni, quindi anche i monoteismi, se vogliono sopravvivere, devono seguire altre vie.

Di queste possibili vie, a me sembra che dal convegno ne siano emerse due.

1) L’interpretazione della religione non come «Verità di Dio», ma come etica. Se la religione, si è detto, non promuove e produce opere di bene, a nulla serve; la religione migliore è quella che rende l’uomo migliore. Ma, se restiamo sul terreno religioso tradizionale, la via etica, a me pare, non fa che riproporre in forma nuova il vecchio problema teologico del vero Dio. Come definire infatti ciò che è bene e ciò che è male, giusto o ingiusto, senza cercare l’infallibile criterio di distinzione in Dio, che per i credenti è la fonte suprema di ogni bontà e giustizia?

Si ripropone allora l’insolubile domanda: ma quale Dio? Jahvè, Cristo o Allah? Il fatto è che non sono tre nomi diversi dello stesso Dio, ma per molti aspetti essenziali tre dèi diversi e incomparabili. Si direbbe che paradossalmente i tre monoteismi sono la prova storica del loro fallimento, in quanto testimoniano il loro esatto contrario, ossia il politeismo. Se ciascuno di essi ha un dio in gran parte diverso dagli altri, la somma fa tre (glissando sul numero indefinito di quella sorta di divinità minori che sono gli angeli e i demoni). I tre monoteismi, se presi sul serio e tutti insieme, sotto uno sguardo d’insieme, rappresentano infatti una sorta di trinitarismo. In ogni caso, su base teologica, dialogo e accordo mi paiono impossibili. Per gli ebrei Cristo è solo un uomo, un ebreo deviante, per gli islamici il penultimo dei profeti; per i cristiani (molti, ancora oggi) gli ebrei sono deicidi, e gli islamici scismatici. E così via screditando e anatemizzando.

Analogamente, ciascun monoteismo professa un’etica diversa, che discende dalla sua teologia e che per tanti versi è incompatibile con quella altrui (vedi le diverse norme riguardanti la famiglia, il matrimonio, l’educazione, l’apostasia, la libertà, i diritti umani, la bioetica ecc.). Persino all’interno di ciascuno di loro ci sono etiche diverse e contrapposte: spesso, ciò che è bene e giusto per l’uno è male e ingiusto per l’altro. L’etica giullaresca di San Francesco non è quella del papa-re Bonifacio VIII o quella delle Crociate in Terrasanta; l’etica solidale di don Milani o di don Gallo non è quella speculativo-finanziaria dello Ior di Marcinkus.

Occorrerebbe che anche i religiosi abbiano il coraggio di ammettere che non solo il santo sufista, ma anche il terrorista può pretendere di appellarsi ai testi sacri, dove si può trovare tutto e il contrario di tutto. Lo stesso vale per l’etica della misericordia e pacifista del papa attuale, o per quella folle e bellicista dell’Isis o dei due Bush, i cui effetti stanno tuttora sconvolgendo e devastando il mondo. Senza uscire definitivamente dal terreno dei dogmi sacri, ogni tentativo di costruire un’etica religiosa aperta, critica, condivisa e solidale, lontana dai fondamentalismi, è, a mio avviso, votato al fallimento.

2) ll carattere interiore e mistico della fede religiosa. Questa è la via maestra (testimoniata poeticamente, si è detto nel convegno, per es. da Rumi per l’Islam e Dante per il cristianesimo) atta a uscire dalle secche della teologia dimostrativa del vero Dio. Forse il primo a indicarla con lucidità è stato Dionigi Aeropagita (V secolo d.C.), nel suo celeberrimo libro Nomi divini. Dove si mostra che Dio è l’innominabile e l’ineffabile, e perciò di Lui posso solo dire che so quel che non so, e cioè che ignoro totalmente che cosa Egli sia. Ergo, mentre l’arroganza della teologia (etimologicamente: scienza di Dio) crolla, insieme a quella del vero credente o muslim, si fa avanti il dubbio e l’agnosticismo, per il quale Dio è l’inconoscibile.

Non ho nulla da obiettare alla via mistica e interioristica del credente che nella pienezza dell’auto-dissoluzione nel suo Dio dice di trovare la beatitudine suprema. Purché non voglia imporre agli altri la sua ricetta. Che, per il suo carattere personale, intimistico ed esperenziale, non è universalizzabile. E a nulla serve per risolvere i problemi del dialogo interreligioso. Tantomeno tra i tre monoteismi, per come si sono storicamente configurati. Del resto, lo ha dichiarato papale papale Benedetto XVI nel 2008: «Sulla decisione religiosa di fondo, cioè sulla propria fede, il dialogo interreligioso è impossibile».

Il discorso fin qui fatto è tutto contenuto, nell’essenziale, in una parabola stranamente mai citata nel convegno, la Favola dei tre anelli, molto diffusa e popolare nel Medioevo, narrata in modo mirabile da Giovanni Boccaccio nel Decameron (Prima giornata, Novella 3), e, con alcune varianti, argomento centrale del famoso poema drammatico Nathan il saggio (Atto II, Scena VII) del filosofo illuminista tedesco Gotthold Ephraim Lessing.

Di che si tratta? La riassumo, per chi non la conoscesse.

Saladino, il famoso sultano islamico medioevale, avendo fatto spese folli e non potendo imporre ai sudditi ulteriori tributi per riempire le casse dello Stato, escogita un astuto stratagemma. Convoca a corte un mercante ebreo ricco sfondato (di nome Melchisedech in Boccaccio e Nathan in Lessing) e gli pone la domanda di quale a suo giudizio sia tra i tre monoteismi la vera religione. Comunque l’ebreo risponda, è in trappola, e può essere accusato dal sultano di menzogna, offesa o infedeltà, e quindi punito con l’espropriazione delle sue ricchezze.

Come uscirne?

L’ebreo, che oltre ad essere il più ricco è anche il più saggio del regno, chiede di prender tempo prima di rispondere, e inizia a raccontare una favola apparentemente adatta all’età infantile. C’era una volta un uomo che aveva un anello prodigioso, capace di garantire al possessore privilegi, onore, rispetto e primazia nella famiglia. Prima di morire, l’uomo concesse l’anello al più amato dei suoi figli, e così poi fece costui, sì che l’anello passò di successore in successore. Fino all’ultimo, che avendo tre figli e amandoli di pari amore, non volendo scontentare nessuno, fece costruire in segreto dall’orefice altri due anelli così simili al primo da esserne indistinguibili anche al possessore. In punto di morte li donò separatamente a ciascuno dei suoi tre figli.
Qual era il vero anello e chi il vero erede? Tutti e nessuno. Neppure un giudice poté stabilirlo. Il sultano capì la magistrale lezione di tolleranza religiosa, e abbracciò commosso l’ebreo, che gli concesse il prestito gratis.

Conclusione per noi.
Se non c’è una vera religione, testata da Dio stesso, teologicamente superiore alle altre, non potrebbero essere tutte vere, in quanto tra di loro simili e indistinguibili come gli anelli della favola? Ma ciò non è logicamente possibile, dato che l’una è in contraddizione con l’altra. Dunque, potrebbero essere tutte false? Solo Dio potrebbe dirlo. Ma se Dio esista, e che cosa sia, noi non sappiamo, né potremo mai saperlo, trattandosi di qualcosa al di là delle nostre possibilità conoscitive e dimostrative.
Il che significa che ogni religione, compresi i tre monoteismi, non è la «Verità di Dio», ma un’opinione soggettiva del credente: imperfetta e fallibile, come tutte le altre umane opinioni.
Solo in tale quadro antidogmatico e relativistico mi sembra possibile, o almeno non impossibile, un ricco e fecondo dialogo interreligioso. E interculturale.
Ma forse è un’utopia.

(27 settembre 2017)

da Micromega on line

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