Errori e orrori della teoria della “grande sostituzione”

Secondo la teoria della grande sostituzione, il destino di europei e nordamericani è segnato. Ma se è possibile uno scontro di civiltà, lo è altrettanto l’incontro. Perché non c’è un futuro predeterminato. E i percorsi di integrazione si possono costruire.

La teoria della grande sostituzione

“È molto semplice: c’è un popolo e presto, nell’arco di una generazione, al suo posto arriva un altro popolo (…)” così si esprime Renaud Camus ne Le grand remplacement (edizioni Reinharc, Neuilly sur Seine, 2011), di cui è inutile cercare traduzioni, mentre abbondano i riferimenti su internet. L’anziano professore francese è il principale teorico della “grande sostituzione” cui si è ispirato esplicitamente il terrorista autore della strage del 15 marzo a Christchurch in Nuova Zelanda, che è costata la vita a cinquanta persone in due moschee.

Secondo questa teoria, il destino dell’uomo bianco è tristemente segnato: sarà sostituito da asiatici, africani e, soprattutto, dagli islamici che imporranno a tutti la loro religione, la loro cultura, i loro costumi. I dati demografici sono chiari: l’Europa invecchia e declina, l’Asia la sorpassa economicamente e l’Africa raddoppia la popolazione. Ma l’attenzione non è sui processi economici e sociali: si tratta di un complotto, di una operazione verticistica i cui ideatori vivono in casa nostra: il capitale finanziario, le istituzioni europee, gli ebrei e via elencando.

Emblematico che il paese dove questo dibattito si è maggiormente sviluppato sia la Francia: una nazione dove la paura del declino demografico risale addirittura alla sconfitta di Sedan contro i prussiani del 1870 e dove, da oltre vent’anni, si parla delle conseguenze politiche dell’immigrazione. Sempre in Francia, nel 2015 fece molto scalpore (e successo di vendite) il romanzo distopico di Michel Houellebecq Sottomissione, dove si immagina che alle presidenziali del 2022 Marine Le Pen venga sconfitta dal primo presidente musulmano.

Lo stesso dibattito, peraltro, ha preso piede anche negli Stati Uniti, focalizzandosi in particolare sull’immigrazione messicana (qui e qui).

Se è possibile individuare un tratto comune al pensiero xenofobo in quasi tutti i paesi occidentali, è costituito dal concepire i fenomeni migratori attraverso caratteristiche immutabili, come se si potesse ignorare che le migrazioni dal sud del mondo hanno come principale obiettivo quello di migliorare le condizioni economiche e di avvicinarsi a uno stile di vita occidentale anche nei suoi aspetti consumistici.

Va inoltre sottolineato come l’immigrazione in Europa non sia prevalentemente africana o islamica, ma soprattutto intra-europea e cristiana (e femminile). Per l’Italia, ad esempio, su 5,1 milioni di immigrati, il 52 per cento è costituito da donne. Tra le prime dieci nazionalità (che rappresentano oltre il 60 per cento degli immigrati), non emerge una prevalenza di paesi a maggioranza islamica. Secondo le stime del Dossier Idos, gli immigrati di religione musulmana sono circa 1,7 milioni, meno di un terzo di quelli totali. Basti pensare, ad esempio, che i soli rumeni – europei, comunitari e prevalentemente cristiani – rappresentano oltre un quinto degli stranieri.

Figura 1 – Prime dieci nazionalità dei cittadini stranieri residenti in Italia (1.1.2018)

Fonte: Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Istat

Integrazione e adattamento alle abitudini locali

Pur essendo uno tra i paesi di più recente storia migratoria (in entrata), è evidente come in Italia il procedere del percorso di integrazione porti a un adattamento delle abitudini, sempre più in linea con quelle dei cittadini autoctoni.

L’esempio più conosciuto riguarda il tasso di fecondità (figura 2): se nei primi anni Duemila le donne straniere in Italia registravano un tasso di fecondità vicino ai 3 figli, gli anni della crisi hanno portato una progressiva diminuzione, culminata nel 2014 con la discesa al di sotto di quota 2.

Altri riscontri su consumi e stili di vita sono particolarmente evidenti nelle seconde e terze generazioni, sempre più vicine ai coetanei autoctoni che ai genitori immigrati. Un esempio è dato dalla scelta della scuola superiore (figura 3): sebbene la quota di chi sceglie un liceo sia ancora inferiore rispetto a chi frequenta un istituto professionale, la tendenza mostra un incremento del primo gruppo e un calo del secondo.

Così come occorre sempre ricordare che oltre un milione di stranieri non vengono più conteggiati come tali, avendo nel frattempo acquisito la cittadinanza italiana.

Figura 2 – Tasso di fecondità totale per cittadinanza della madre

Fonte: Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Istat

Figura 3 – Alunni stranieri per settore di scuola secondaria di II grado

Fonte: Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Miur

Certo, gli esiti dei processi di integrazione in quasi tutti i paesi dipendono dal successo economico delle migrazioni: in caso contrario, le tensioni dovute alla disoccupazione o sottoccupazione delle seconde e delle successive generazioni possono aprire spazi alla violenza e anche al terrorismo.

Ma non esiste un futuro predeterminato: lo scontro delle civiltà è possibile, ma lo è anche l’incontro delle civiltà. Molto dipende dalla politica: dal sapere mettere l’accento su ciò che unisce rispetto a ciò che divide, sulla tolleranza dell’altro, sulle buone prassi, sulle azioni concrete nella scuola e nel lavoro. Purtroppo, quasi ogni giorno vediamo come sia più facile iniziare un incendio che spegnerlo.

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