Il reddito di base come trionfo dell’impolitico

Regalare soldi a tutti per sempre? Il reddito di base come trionfo dell’impolitico

Anche nella formulazione più recente e sistematica di Philippe Van Parijs, l’idea del “basic income” presenta limiti e difficoltà. E’ una risposta semplicistica a problemi complessi. Nel quadro politico-istituzionale oggi esistente in Italia, una proposta più solida e incisiva appare quella del “reddito d’inclusione sociale”, che potrebbe costituire un pilastro del programma politico riformistico di sinistra. Vediamo perché.

di Nicolò Bellanca

Philippe Van Parijs è probabilmente il più autorevole sostenitore vivente del basic income. Assieme a Yannick Vanderborght, ha appena pubblicato un ampio trattato, che costituisce la summa non soltanto delle sue riflessioni, ma pure dei vivaci dibattiti internazionali e delle esperienze che hanno tentato di avvicinare l’ideale[1]. Nell’accezione propugnata da Van Parijs, il reddito di base è un flusso di soldi gratuitamente elargito con regolarità da una comunità politica ai singoli individui, senza limiti di durata e principalmente finanziato dal gettito fiscale[2]. Questo beneficio monetario uniforme è del massimo importo sostenibile (indicativamente, pari al 25% del PIL pro capite), punta a garantire la sicurezza economica, spetta a chiunque abbia la residenza legale in un determinato territorio ed è indipendente dall’impegno lavorativo e da altri redditi percepiti. In apparenza, siamo davanti a un intervento di policy capace di affrontare congiuntamente parecchi dei maggiori nodi sociali contemporanei: la crescente disuguaglianza, il mancato formarsi di un numero adeguato di posti di lavoro dignitosi, l’implosione dei tradizionali regimi di welfare, i limiti ambientali della crescita economica, la strutturale contrazione del lavoro umano in processi produttivi sempre più imperniati su macchine intelligenti. Regalare soldi a tutti per sempre, sembra la nuova panacea in grado di conciliare libertà individuale e giustizia collettiva, sostenibilità e sviluppo, apertura all’innovazione e protezione dai rischi, programmi politici di sinistra e di destra[3]; sembra la “via capitalista al comunismo”, per citare il provocatorio titolo di un saggio di Van Parijs di oltre trent’anni fa. Ma è davvero così?

Possiamo articolare le obiezioni al basic income in tre posizioni. Alcuni critici osservano che, se questa proposta venisse realizzata, persone fisicamente abili, ma indolenti, sfrutterebbero le persone laboriose. Il lontano retroterra di questo argomento, che corrisponde ad una concezione ancora molto diffusa della giustizia sociale, è la filosofia giusnaturalista, specialmente nella versione rielaborata dagli economisti classici e da Marx, secondo cui il lavoro vivo umano è l’unica fonte del valore economico. Riassumendo: “chi non lavora, non prende i soldi gratis”. Altri critici annotano che le collettività umane poggiano su qualche patto di reciprocità tra i membri, per il quale ognuno ha diritti e doveri, opportunità e vincoli. Chi sceglie di trascorrere il proprio tempo su una tavola da surf davanti alle spiagge di Malibù, fruisce di una libertà asociale che, abbandonando il patto di reciprocità, non può chiedere risorse a quelli che nel patto sono coinvolti. In sintesi: “chi non partecipa al contratto sociale, non prende i soldi gratis”. Infine, un terzo gruppo di critici considera, accanto alla distribuzione del reddito monetario, la sua produzione. Il reddito di una collettività è generato (anche) da un ammontare di lavoro eteronomo (comandato da altri o dalle circostanze). Finché esistono ancora mansioni autonome ed eteronome, “alte” e “basse”, nessuno, in una società giusta, può sottrarsi alla loro ripartizione. Non possiamo accettare una distribuzione egualitaria del reddito di base, mentre la ripartizione del lavoro eteronomo non lo è. Il surfista di Malibù è un privilegiato perché, pur prendendo i soldi gratis come tutti, lascia agli altri il conflitto su chi svolge i lavori direzionali o esecutivi, qualificati o dequalificati, creativi o routinari. In breve: “chi non partecipa alla distribuzione del lavoro eteronomo, non prende i soldi gratis”[4].

Ovviamente, le tesi dell’esclusiva funzione valorizzatrice del lavoro umano, del contratto sociale e della ripartizione conflittuale del lavoro eteronomo, muovono da differenti fondamenti normativi. Esse presentano tuttavia un comune denominatore: chi non partecipa al funzionamento dell’economia sociale (lavorando, reciprocando o contribuendo alle attività meno gratificanti), non può chiedere di essere trattato come gli altri[5]. Assumendo questa premessa, Anthony Atkinson enuncia la proposta del reddito di partecipazione. «Definirei genericamente la “partecipazione” come l’apporto di un contributo sociale, che per quanti sono in età lavorativa potrebbe essere soddisfatto da un lavoro dipendente o autonomo a tempo pieno o parziale, dall’istruzione, dalla formazione o da una ricerca attiva di occupazione, dalla cura domestica di bambini piccoli o di anziani non autosufficienti o dal volontariato regolare presso un’associazione riconosciuta. Vi sarebbero conferimenti per quanti non sono in grado di partecipare per ragioni di malattia o di disabilità. Il concetto di contributo sarebbe esteso, tenendo conto di tutta la gamma delle attività in cui una persona è impegnata»[6]. Come chiarisce l’ultima frase del brano citato, Atkinson ha in mente un’accezione non laboristica della partecipazione (non la lega all’occupazione), tale che essa possa essere modulata in relazione all’evoluzione delle caratteristiche sociali, e tale quindi da renderla compatibile con tutte e tre le linee di pensiero sopra richiamate. Il beneficio sarebbe concesso indipendentemente da altri redditi dei riceventi, ma si dirigerebbe verso quelli che, in vario modo, sono coinvolti nel funzionamento della società[7].

Nei riguardi delle tre formidabili linee di attacco sopra ricordate, la più pragmatica difesa degli alfieri del basic income consiste nell’affermare che alcune società hanno ormai raggiunto un tale livello generale di prosperità, da dover garantire un minimo di cibo, abitazione e vestiario a chiunque. Ciò risponde alla duplice ragione di preservare la salute e la capacità di lavoro di tutti; e di evitare eccessive tensioni, così tra gruppi abbienti e gruppi poveri, come all’interno dell’individuo che provasse disagio davanti all’altrui sofferenza. Tuttavia, a ben vedere, questa posizione non porta automaticamente al basic income. Con essa il beneficio potrebbe non oltrepassare una modesta integrazione; essere erogato non in denaro; essere non permanente; soprattutto, potrebbe richiedere clausole di condizionalità. Riassumendo: “la società è abbastanza ricca, da ritenere giusto e conveniente dare un aiuto minimo a tutti quelli che ne hanno bisogno”. Piuttosto, la più ambiziosa e coerente difesa di principio del reddito di base procede dall’assunzione normativa secondo cui tutti coloro che sono attivi oggi nell’economia (così i capitalisti, come i lavoratori) aggiungono soltanto un marginale apporto alla ricchezza accumulata dalle passate generazioni. Essendo difficile stabilire di chi siano parenti gli antenati, i cui investimenti e il cui impegno maggiormente contribuirono alla ricchezza sociale, e quali furono gli antenati che non poterono trasmettere ai discendenti il loro contributo, appare giusto eguagliare il trattamento di tutti. Ne segue che il reddito di base è il dividendo sociale delle risorse ereditate dai nostri predecessori. In sintesi: “la ricchezza sociale è di tutti; chiunque esiste, può attingervi”[8].

Van Parijs non adopera questo spostamento di prospettiva per attaccare le ragioni delle tre posizioni critiche, accomunate da una qualche forma di partecipazione dei singoli al funzionamento della società[9]; si limita a mostrare che, grazie a questa prospettiva, il reddito di base viene giustificato. Tuttavia, così procedendo, egli rinuncia a convincerci in forza di argomentazioni razionali; prova soltanto a farci optare per un’idea di giustizia sociale rispetto ad un’altra. Siamo nella sfera dei gusti e delle opinioni, non in quella delle deliberazioni ponderate e delle convinzioni motivate. Ebbene, se siamo in tale sfera, le ragioni delle tre posizioni critiche riflettono maggiormente l’intuizione etica che, della giustizia sociale, abbiamo in tanti. In effetti, l’approccio di Van Parijs si concentra sulla ricchezza (intesa come insieme di valori d’uso) già valorizzata che passa da una generazione all’altra, non su quella in corso di valorizzazione da parte della generazione corrente. Prelevare da uno stock passato di ricchezza, è un atto ben diverso dell’impegnarsi a riprodurre e, eventualmente, espandere quello stock nel presente. Chi si sente erede di una ricchezza condivisa, vanta certamente il diritto di attingere ad essa, ma può non collaborare al suo mantenimento e accrescimento. Egli raccoglie certamente dalle società trascorse, ma può non sentirsi membro della società odierna, restando a piacimento a cavalcare le onde sulla tavola da surf. La giustificazione più coerente e compiuta del reddito di base vale dunque per individui atomistici che possono trarsi fuori dalla società. Ma la possibile astensione di questi individui favorisce certamente coloro che, dentro la società, sgomitano per conquistare asimmetrie di potere. Così, sebbene sia pensato come un provvedimento equalizzante, il reddito di base rischia di ratificare e ampliare le divaricazioni tra individui e tra gruppi.

Fin qui, abbiamo considerato critiche e difese del basic income. Passando alle sue conseguenze economiche (e tralasciando la disamina della sua sostenibilità finanziaria), il punto saliente che emerge dalla letteratura, e che appare sostanzialmente riconosciuto da Van Parijs, è che siamo in grado di selezionare gli scenari che più plausibilmente discenderebbero dall’introduzione del reddito di base, senza però essere in condizione di misurare la probabilità di ciascuno e di valutare l’impatto socio-economico complessivo che ciascuno avrebbe. Così, possiamo supporre che l’autorità pubblica aumenterebbe il prelievo fiscale, per coprire una parte sostanziosa del reddito di base, mentre però una quota non piccola del denaro raccolto sarebbe sperperata per versare il reddito di base a chi è ricco. Possiamo annotare che il reddito di base comporterebbe, in maniera continuativa, un alto livello di spesa pubblica e che, prima o poi, è plausibile che tale livello verrebbe parzialmente finanziato in deficit, dilatando il debito pubblico. Possiamo sospettare che l’elargizione di un generoso reddito privo di obblighi – il quale, essendo uguale ad un quarto del PIL pro capite per ogni individuo, aggiungerebbe un’entrata pari al PIL pro capite in una famiglia di quattro membri adulti – spingerebbe a lavorare meno o a non lavorare del tutto. Soprattutto, possiamo temere che il reddito di base equivarrebbe a una sovvenzione sociale a favore delle imprese private, le quali offrirebbero impieghi precari e sottopagati, grazie al fatto che i salariati fruirebbero anche dei soldi gratis erogati dall’autorità pubblica. Nondimeno, rispetto a simili scenari, appare assai arduo effettuare esperimenti che aiutino a chiarire le effettive conseguenze del basic income sui comportamenti economici: la sua natura universale, permanente e incondizionale non può essere replicata in qualche sessione di laboratorio. Né sembrano più solidi i modelli econometrici, che tentano di ricavare nessi causali da correlazioni: essi, comunque, concordano nel mostrare una significativa riduzione dell’attuale disponibilità al lavoro, in presenza del reddito di base.

Davanti a questa incerta situazione, Van Parijs chiede l’introduzione graduale del basic income, con importi inizialmente contenuti. Ricordando la vicenda storica dei due più importanti modelli di protezione sociale – l’assistenza pubblica e la previdenza sociale –, egli osserva che essi ottennero un crescente consenso non mediante esperimenti a campione, bensì con la sperimentazione in contesti reali, partendo da livelli modesti. Tuttavia, Van Parijs sta qui soltanto spostando il problema: non siamo capaci di prevedere l’impatto sistemico del basic income; quindi applichiamolo in dosi omeopatiche, per cominciare a capire meglio cosa succede. Ma perché dovremmo fare ciò proprio con il reddito di base, invece che testare qualche altra iniziativa? Lo faremmo soltanto se fossimo intellettualmente e politicamente convinti. Ciò rimanda alla prima parte della nostra esposizione, e alle forti perplessità, verso il reddito di base, che essa ha espresso.

Tirando le fila, l’idea del basic income appare una risposta semplicistica a problemi complessi, giustificata da una concezione della giustizia sociale che non riesce a battere le concezioni rivali, sul piano delle argomentazioni, né a superarle, sul piano dell’intuizione etica; essa, inoltre, comporta il pericolo, sul piano dell’applicazione, di favorire i soggetti con maggiore potere, in particolare le imprese private. Se la politica è (anche) la capacità di governare i processi e le scelte collettive, il reddito di base, proponendo di regalare soldi a tutti per sempre, esprime il trionfo dell’impolitico.

Una proposta più solida, nel quadro politico-istituzionale oggi esistente in Italia, è il reddito d’inclusione sociale (Reis), avanzata dall’Alleanza contro la povertà[10]. Si tratta del progetto di un reddito minimo universale: un sostegno monetario destinato a tutte le famiglie in grave povertà[11], non soltanto ai disoccupati e ai working poor; collocato in un piano quadriennale nel quale il legislatore e il governo assumono impegni stringenti circa le tappe dell’estensione graduale degli ammissibili[12]; retto da “obblighi reciproci”, poiché l’osservanza degli impegni individuali di inserimento è condizione per continuare a fruirne[13].

Questo riferimento al Reis ci sollecita a un’annotazione conclusiva sul dibattito pubblico italiano. La confusione tra molteplici misure di sostegno al reddito è elevata, toccando il massimo nei riguardi dei vari fondamenti normativi, ovvero della concezione di giustizia sociale che ognuna di esse implica. Abbiamo avanzato alcuni motivi per i quali, a nostro avviso, occorre lasciare da parte il basic income. Ovviamente, scartare la “proposta radicale” di Van Parijs non equivale alla rinuncia ad interventi radicali, tra i quali abbiamo qui evocato il reddito di partecipazione alla Atkinson. Se, tuttavia, ci concentriamo provvisoriamente su un’autentica prospettiva riformistica, il reddito d’inclusione sociale appare, entro i limiti che lo caratterizzano, un’idea solida e incisiva. Nell’elaborazione del programma politico di una sinistra rifondata, accanto ad un orizzonte animato da misure radicali, è importante disporre non di slogan vacui e impolitici – regalare soldi a tutti per sempre –, bensì di valide indicazioni che sappiano intervenire su bisogni sociali seri e urgenti.

NOTE

[1] Philippe Van Parijs & Yannick Vanderborght, Il reddito di base. Una proposta radicale, Il Mulino, Bologna, 2017, pp.487, euro 29,00.

[2] La comunità politica può coincidere con uno Stato nazionale, ma può essere un’autorità pubblica municipale, regionale o internazionale: questo aspetto è affrontato nel Capitolo ottavo del libro di Van Parijs & Vanderborght.

[3] «In termini di redistribuzione, il reddito di base risponderebbe alle richieste di equità della sinistra e, limitando il regime di interferenze e umiliazioni, regalerebbe alla destra un governo più ridotto che mai» (Rutger Bregman, Utopia per realisti, Feltrinelli, Milano, 2017, p.44). Vale la pena ricordare che alcune misure di sostegno al reddito di tipo automatico, come la tassazione negativa, hanno le radici nel pensiero degli economisti liberali Milton Friedman e Juliet Rhys-Williams; che fu il repubblicano Richard Nixon uno dei primi politici a prospettare un piano, poi ritirato, per un reddito minimo che sostituisse le precedenti forme di welfare; che oggi Mark Zuckerberg (CEO di Facebook), Elon Musk (CEO di Tesla e SpaceX), Pierre Omidyar (fondatore di E-bay) o Paul Graham (fondatore dell’acceleratore di startup Y-Combinator) sono tra i più entusiastici propugnatori del reddito di base.

[4] In effetti, questa terza tesi critica non è discussa esplicitamente da Van Parijs, sebbene venga qui e là evocata. Per una sua enunciazione, vedi Nicolò Bellanca, Isocrazia. Le istituzioni dell’eguaglianza, Castelvecchi/Micromega, Roma, 2016, Capitolo secondo.

[5] Van Parijs è consapevole della forza intuitiva delle idee di giustizia sociale che stanno dietro alle tesi dell’esclusiva funzione valorizzatrice del lavoro umano, del contratto sociale e della ripartizione conflittuale del lavoro eteronomo. Poiché ciascuna di queste idee è stata elaborata da uno stuolo di autori attraverso molteplici varianti, egli cerca di trovare alleati, avanzando ragionamenti a favore del basic income anche nell’ambito degli altri approcci. In particolare, molto dense (sebbene, a mio avviso, non convincenti) sono le pagine nelle quali egli prova a piegare il neocontrattualismo di Rawls e di Dworkin alla propria causa.

[6] Anthony Atkinson, Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Raffaello Cortina editore, Milano, 2015, p.223.

[7] Per Van Parijs & Vanderborght (op.cit., p.347, parentesi quadre aggiunte), questa proposta annegherebbe «fra controlli costosi e invadenti [per stabilire chi davvero “partecipa”] da un lato, e arbitrarietà [per stabilire il significato della “partecipazione”] dall’altro». Nondimeno, ogni tappa storica nell’estensione della protezione sociale ha dovuto affrontare questi nodi, delicati e costosi nella loro gestione. L’alternativa non consiste nel regalare soldi a tutti per sempre: come ribadiremo più avanti, la politica è anche la capacità di orientare le scelte collettive, a partire da un accordo esplicito sulla nozione di partecipazione entro una particolare società.

[8] Vedi Van Parijs & Vanderborght, op.cit., specialmente alle pp.115-120, 173-176, 328-329 e 396.

[9] Quando attacca quelle posizioni, lo fa in base a loro presunte inconsistenze logiche e teoriche, non in nome del criterio positivamente proposto.

[10] Vedi AA.VV., Il reddito d’inclusione sociale (Reis). La proposta dell’Alleanza contro la povertà in Italia, Il Mulino, Bologna, 2016; vedi anche http://www.redditoinclusione.it/ L’Alleanza contro la povertà è un soggetto di advocacy, composto da 37 tra associazioni, enti del terzo settore, sindacati e rappresentanze di Comuni e Regioni.

[11] Ricordiamo che si ha “povertà relativa” quando una famiglia di due componenti spende meno della singola persona media, mentre si ha “povertà assoluta” al di sotto di una soglia che varia tra 400 e 1900 euro, a seconda della composizione familiare e del luogo di residenza. Il Reis affronta la povertà assoluta che, secondo le stime dell’Istat, riguarda 4.75 milioni di persone.

[12] Secondo i calcoli dell’Alleanza nel primo anno servirebbero 1,7 miliardi di euro; nel secondo anno 3,5; nel terzo 5,3; nel quarto 7,1. Si realizzerebbe un processo progressivo di ricostruzione del potere d’acquisto e della domanda interna che potrebbe arginare e invertire la fine del welfare. Non una soluzione unicamente assistenziale, ma una politica attiva.

[13] In questo articolo non confrontiamo il Reis con il Rei, il Reddito d’inclusione che è stato introdotto dal decreto legislativo 15/09/2017 n.147. Rimandiamo a Massimo Baldini & Cristiano Gori, “Reddito d’inclusione: non deve essere una riforma incompiuta”, articolo del 08.09.17, su http://www.lavoce.info/

(11 dicembre 2017)

da Micromega on line

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